Storia del processo Green Hill

Il 23 gennaio dovrebbe arrivare la sentenza che chiuderà il processo Green Hill. Le richieste avanzate dal Pm durante la requisitoria non sono leggere: pene che vanno dai due ai tre anni per i quattro imputati, i due co-gestori dell’allevamento, il direttore e il veterinario dello stabilimento, accusati di maltrattamento e uccisione immotivata di animali. Secondo l’accusa infatti, all’interno dell’allevamento sarebbe esistita una strategia precisa, volta a sacrificare la vita e il benessere degli animali in favore del bieco profitto: “Non c’era alcun interesse a curare i cani malati”, ha ricostruito il magistrato: “Le cure avrebbero potuto alterare i parametri per la sperimentazione. I cani andavano quindi sacrificati”. Di opinione opposta, chiaramente, gli avvocati della difesa, che sottolineano come la cura dell’azienda nei confronti dei beagle allevati fosse sempre risultata ineccepibile nel corso delle ispezioni effettuate negli anni da parte dell’Istituto zooprofilattico dellla Lombardia ed Emilia Romagna. In attesa di sapere il parere del giudice, facciamo un passo indietro, per ricostruire come ha avuto inizio la vicenda.

L’allevamento Green Hill, specializzato in cani di razza beagle era situato a Montichiari (Brescia), e dal 2010 faceva parte del Marshall Farm Group, una multinazionale dell’allevamento di animali a scopo biomedico. Dopo anni di esposti e proteste da parte di gruppi animalisti, nell’aprile del 2012 un gruppetto di manifestanti fa irruzione nello stabilimento, liberando dalle gabbie alcune decine di cani. Mentre le manifestazioni per la chiusura di Green Hill si intensificano, e le foto dei cuccioli che scavalcano le recinzioni di filo spinato fanno il giro del mondo, gli attivisti coinvolti nel blitz vengono però processati con accuse gravi: furto, violazione di domicilio, danneggiamento e rapina.

Nel corso del processo, uno degli avvocati degli attivisti coinvolti richiede il permesso di effettuare un sopralluogo nei locali dell’allevamento, per verificare l’effettiva entità dei danni provocati dall’azione dei manifestanti. Durante questi accertamenti l’avvocato è accompagnato da un perito, che al termine della visita redige oltre due pagine di osservazioni in cui esprime dubbi sulla gestione dell’allevamento, e sottolinea le (presunte) gravi condizioni in cui vengono tenuti gli animali. Il documento, consegnato al Pm, porta all’apertura di un nuovo filone d’indagine.

Dopo nuove perizie e indagini il magistrato arriva quindi a ipotizzare per i gestori dell’allevamento i reati di maltrattamento e uccisione immotivata degli animali, e si apre un nuovo processo. Il giudice decide quindi per il sequestro cautelativo delle strutture, e la custodia degli animali viene temporaneamente affidata ai volontari della Lav.

Questa la vicenda fin’ora, e per conoscerne l’epilogo bisognerà attendere il 23 gennaio. Dalla parte di Green Hill, intanto, si sono schierati negli scorsi mesi gli attivisti di Pro-Test ITalia, associazione che si batte a favore della ricerca e della sperimentazione animale, e che ha seguito attentamente tutte le fasi del dibattimento, criticando aspramente l’impianto accusatorio messo in piedi dal Pm, la scelta di periti che spesso sarebbero stati vicini ad ambienti animalisti, e i metodi utilizzati da associazioni che avrebbero sfruttato il processo per farsi pubblicità. “Con Green Hill abbiamo visto ripetersi un copione messo in atto in passato con altri allevamenti”, ci racconta Dario Parazzoli, membro del consiglio direttivo di Pro-Test Italia. “È una strategia degli animalisti, che con esposti e azioni eclatanti puntano a far chiudere gli allevamenti, e ricevere una grande visibilità mediatica. E per queste associazioni ricevere visibilità vuol dire ricevere molte donazioni”.

Sul fronte di chi auspica la condanna degli imputati troviamo invece la Lav, costituitasi parte civile insieme a Leal, Enpa e Lega del cane, che si dice ottimista, e nei giorni passati ha ricordato gli obbiettivi raggiunti finora: “Due importanti risultati sono stati già raggiunti – ha dichiarato infatti Giangluca Felicetti, Presidente della Lav – quasi tremila beagle salvati da Green Hill rimarranno con le famiglie che li hanno accolti garantendogli una vita serena, e l’allevamento Green Hill non riaprirà più, grazie al Decreto legislativo 26/2014”.

Il decreto in questione, approvato sull’onda dell’eco mediatica suscitata dal processo, stabilisce infatti il divieto di allevare sul territorio Italiano cani, gatti e scimmie a scopo di ricerca. Una legge che secondo Pro-Test sarebbe però non solo dannosa per la ricerca italiana, ma inutile anche dal punto di vista degli animalisti. “Il decreto non può vietare la sperimentazione, e il risultato quindi è che gli animali ora devono essere comprati da altri paesi”, ci ha spiegato Parazzoli. “Questo ha due conseguenze. Per prima cosa costano di più di più, e crea quindi un problema per la ricerca italiana, che ha sempre meno soldi. Vietare l’allevamento in Italia, che è uno dei paesi con le regole più severe d’Europa per la tutela degli animali, vuol dire inoltre che ne verranno allevati di più in paesi in cui esistono meno tutele, e in cui vengono quindi cresciuti in condizioni potenzialmente peggiori. Per arrivare nei laboratori italiani dovranno inoltre affrontare lunghi viaggi, trasporti sicuramente fastidiosi per gli animali, e potenzialmente pericolosi”.

via Wired.it

Credits immagine: en:sannse via Wikipedia

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