L’isolamento non paga

Le aree protette – anche le più estese, come i parchi – non sono sufficienti a garantire un buon livello di biodiversità: studi recenti hanno dimostrato che per ottenere una maggiore efficacia è necessario creare dei ‘’corridoi ecologici’’ di collegamento. A fornire il suggerimento è uno dei massimi esperti sul comportamento degli animali: Danilo Mainardi, ordinario di Conservazione della natura nell’Università Ca’ Foscari di Venezia e direttore della Scuola internazionale di etologia del Centro “Ettore Majorana” di Erice. L’idea nasce da una migliore conoscenza acquisita nel campo delle interazioni comportamentali tra specie e ambiente. “L’ideale – spiega Mainardi – sarebbe quello di trasformare le aree protette, attualmente distribuite a macchia di leopardo. Finora si è lavorato sull’emergenza. Adesso bisogna pensare al futuro con maggiore razionalità. E per far questo bisogna operare sulle cause remote: si tratta di una grande scelta che coinvolge non soltanto gli scienziati, bensì anche gli economisti, i politici, i filosofi. Non possiamo certo continuare a pensare che la biodiversità delle specie possa essere salvaguardata lasciando aree del territorio completamente deregolamentate, dove tutti possono fare quel che vogliono in barba a ogni più elementare buonsenso”.

I corridoi ecologici hanno lo scopo di rendere il sistema meno vulnerabile: una interconnessione fra aree protette, infatti, consente relazioni dinamiche e riduce il rischio non secondario dell’isolamento delle specie. “Un ecosistema frammentato”, aggiunge Mainardi, “non fornisce adeguate garanzie: bisogna lavorare tenendo conto che la biodiversità è il prodotto della coevoluzione di specie animali e vegetali, che si adattano l’uno all’altro”. Questo binomio inscindibile spinge gli etologi a suggerire, quando è necessario, anche un restauro ambientale. Creare dei corridoi ecologici in zone altamente degradate, senza ricostruire l’ecosistema, non serve a nulla. Ove necessario, bisogna, pertanto, procedere al ripristino dello stato naturale ricostruendo gli ambienti umidi, gli ecosistemi fluviali e forestali, se preesistenti: creare cioè forme il più possibile affini a quelle naturali.L’acquisizione di nuove conoscenze sull’interazione fra specie animale e proprio habitat, oltre che prospettare nuove modalità di conservazione delle specie, ha consentito agli scienziati di correggere anche alcuni comportamenti, fino a pochi anni addietro, ritenuti esatti. “Per lungo tempo si e’ cercato di salvare il panda”, dice Mainardi, “facendo crescere esemplari in cattività, senza aver ben chiara l’evoluzione della specie. I panda invece sono creature legatissime al proprio territorio, poco sociali, hanno bisogno di grandi spazi e difficilmente si adattano alle nuove realtà. Questo e’ un esempio di come si possano ottenere risultati opposti a quelli prefissati, sottovalutando proprio l’interazione fra specie e ambiente”.

Il professor Norman Owen Smith, etologo presso l’Università sudafricana di Witwatersrand e membro onorario della ‘’Ecological Society of America’’, intervenendo al simposio, ha sottolineato che “un animale trasferito in un ambiente nuovo ha, mediamente, tre anni di crisi prima di adattarsi: anche piccole variazioni della qualità della vegetazione possono creare seri problemi alla sua nutrizione, con il rischio di accelerare il processo di estinzione”. Nel caso specifico del panda – creatura che si alimenta prevalentemente di bambù, e che è in grado, nel suo habitat, di riconoscere i luoghi dove crescono i germogli di bambù più teneri – la fase di adattamento in un luogo nuovo, inesplorato, non familiare, può essere pericoloso. L’azione dell’uomo – anche quella meno invasiva e, apparentemente, meno dannosa – può alterare importanti equilibri: il biologo Paolo Luschi, dell’Università di Pisa, ha spiegato che anche l’inquinamento luminoso (sicuramente meno dannoso degli agenti chimici, che continuano a minacciare l’intero ecosistema), per alcune specie, come le tartarughe marine, può essere fatale. Appena nate, infatti, le tartarughe, scambiano la luce artificiale delle lampade con quella naturale e, anziché dirigersi verso l’acqua del mare, si muovono in direzione opposta, rischiando, spesse volte, di morire disidratate e assiderate.

“L’attenzione della comunità scientifica internazionale”, ha affermato Marco Apollonio, professore di zoologia all’Università di Sassari, “è puntata sulla conservazione di alcune specie a rischio estinzione, per le quali si stanno adottando sistemi fruttuosi: nelle Alpi del Trentino si sta lavorando, con risultati davvero soddisfacenti, per reintrodurre l’orso bruno; in Sicilia, nel catanese, si sta tentando l’introduzione dei grifoni, un rapace in serio pericolo come tanti altri suoi simili”. Più difficoltoso sembra essere l’intervento dell’uomo in difesa del lupo: contrariamente a quanto avviene per gli uccelli forestali, gli insetti ed i mammiferi di piccola dimensione, il lupo non fa uso dei “corridoi ecologici”.

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