Aids pigliatutto

Quello dell’Hiv e dell’Aids è da sempre considerato un problema sanitario ‘eccezionale’, diverso dagli altri. E a dircelo non sono solo le campagne pubblicitarie per informare dei rischi, né l’attivismo dei cantanti o degli attori di turno. A parlare sono soprattutto i fondi. Enormi quantità ne arrivano nei paesi in via di sviluppo per cercare di arginare la diffusione del virus e curare i malati. Più di sei miliardi di dollari sono stati stanziati nel 2004 a livello globale, di cui 2,7 versati dai paesi membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) direttamente nelle casse di una nazione. Molti di più di quelli destinati ad altre emergenze che sembrano avere un impatto altrettanto importante sulle popolazioni nei paesi in via di sviluppo, come malaria, tubercolosi o semplicemente le complicazioni del parto. In termini di Daily (Disability-adjusted life-year), indicatore che combina l’impatto complessivo sulla salute di malattie, disabilità e mortalità, infatti, l’Hiv rappresenta solo il 5 per cento dell’emergenza sanitaria in questi paesi, meno di infezioni respiratorie, patologie perinatali, patologie ischemiche. Come spiegare allora questa sproporzione nei finanziamenti? La polemica non è nuova. A rispolverarla recentemente sulle pagine del British Medical Journal è stato un articolo di Roger England dell’Health System Workshop di Grenada.

Troppi i fondi destinati a questa emergenza, dice England, e troppi gli interventi che, se da un lato aiutano le vittime dell’Aids, dall’altro indeboliscono gli altri settori del sistema sanitario dei paesi beneficiari. Ma vediamo qualche cifra. Ogni anno muoiono di Aids 2,8 milioni di persone nel mondo, meno dei bambini nati morti e meno della metà dei neonati che muoiono per altre patologie. Non solo. Sono più i decessi per diabete che quelli attribuibili all’infezione da Hiv. Anche nell’Africa sub-sahariana, dove il virus è il killer numero uno, esso è responsabile ‘solo’ del 17,6 per cento di tutti i problemi di salute. Eppure, secondo i dati Ocse, il 21 per cento degli aiuti sanitari ai paesi in via di sviluppo viene allocato alla ricerca e alla cura dell’infezione da Hiv. Nel 2000 era l’8 per cento, e nel 2007 questa percentuale supererà il 25. In Africa l’aiuto è aumentato di una media di 240 milioni di dollari l’anno tra il 2001 e il 2004. La spesa globale ha mantenuto una crescita media annuale di 1,7 miliardi nello stesso periodo. I costi sono invece minori per le immunizzazioni, la malaria, le malattie infantili e la tubercolosi. Inoltre, gli interventi contro l’Aids non coprono ancora tutta la popolazione che avrebbe bisogno: solo il 9 per cento delle donne incinte affette da Hiv, per esempio, riceve il trattamento per evitare la trasmissione del virus ai figli e sono solo 1,5 milioni coloro che ricevono i farmaci antiretrovirali. Nonostante questo, le stime dell’Unaids indicano che le risorse disponibili sono ben al di sotto dei bisogni, che sono dell’ordine di 20-23 miliardi all’anno per il prossimo triennio.

Aumentare le risorse e creare strutture ad hoc per la prevenzione o il trattamento, dice England, non è però il modo migliore per affrontare il problema, perché questa pratica indebolisce il sistema sanitario dei paesi beneficiari, dirottando il personale verso interventi specialistici e togliendo risorse umane ai servizi di base. Ma dov’è allora la falla nel sistema? Impossibile individuare un responsabile, visto che non c’è un’unica figura che decide dove e come allocare i fondi dei donatori. Al contrario, il meccanismo vede in campo diversi attori, forse troppi. Per ricevere gli aiuti un paese crea il suo piano di lotta all’Aids dandogli un costo. Se i soldi in cassa non bastano nasce il bisogno di reperirli altrove, dai donatori. Così ci si siede intorno a un tavolo, i governi donatori esaminano il progetto e possono decidere di finanziarlo, in questo caso il sistema è bilaterale. “Il problema è proprio questo. Contando tutti i donatori si arriva a 140 attori, senza Ong e fondazioni private. Tutti iniziano a devolvere soldi a quel paese ma non è detto che il governo sappia quanti soldi entrano”, spiega Jacopo Vicini, che si occupa di politiche dell’Aids ad ActionAid. “Non sempre, infatti, i donatori finanziano i piani del governo, a volte entrano in contatto direttamente con altre strutture del luogo. Se l’Oms finanzia l’apertura di una clinica in un distretto in Kenya non sa se il governo sta intanto finanziando un progetto dello stesso tipo. Per cui spesso gli interventi si sovrappongono creando sprechi”.

Poi c’è il fronte multilaterale, enti come il Fondo Globale di lotta contro l’Aids, la tubercolosi e la malaria. Esso opera attraverso donazioni di governi e privati, e finanzia programmi proposti dai paesi in via di sviluppo attraverso meccanismi di coordinamento che includono rappresentanti dei governi locali, organizzazioni non governative, associazioni di persone sieropositive, attori del settore privato, agenzie bilaterali di cooperazione e organizzazioni tecniche del sistema Onu, come Oms e Unaids.

La sfida quindi, sostiene Silvia Ferazzi, responsabile delle relazioni con i donatori nel segretariato del Fondo Mondiale, è quella di riuscire a integrare gli interventi. Il 60 per cento degli stanziamenti del Fondo va alla lotta all’Aids. Di questa cifra il 50 per cento circa è destinato all’acquisto di medicinali e prodotti per il trattamento e la prevenzione, l’altra metà va alle componenti di “sistema”, come il personale sanitario, le infrastrutture, le spese correnti, il monitoraggio e la valutazione degli interventi. “I risultati sono incoraggianti: con i finanziamenti del Fondo, trattiamo oggi 770mila persone e garantiamo il sostegno sociale a piú di un milione di bambini orfani a causa dell’Aids, senza contare i molti milioni di persone che hanno accesso a test volontari, attività di consultorio e di prevenzione comunitaria. Stiamo attenti ad affrontare le carenze e a non creare sovrapposizioni”, spiega Ferazzi. “In diversi casi, per esempio, sollecitiamo i paesi donatori che hanno restrizioni nelle loro politiche di lotta all’Aids e possono solo acquistare medicinali di marca approvati nei loro sistemi di certificazione nazionali, come gli Stati Uniti, a garantire il finanziamento dei trattamenti di seconda linea, per cui non esistono ancora generici, mentre noi assicuriamo la copertura dei medicinali generici per il trattamento di prima linea. Questo permette di assicurare una complementarietà efficace e una piú importante disponibilità di medicine essenziali”. Anche l’Unaids sta cercando di evitare l’eccesso di fondi sugli stessi progetti coordinando organizzazioni e donatori intorno all’idea che ogni paese deve avere un’autorità unica, un solo programma nazionale e un solo sistema di monitoraggio sull’Aids.

Ma se l’intento è ottimizzare gli interventi, i vari esperti restano convinti del ruolo eccezionale del problema dell’Hiv/Aids. Sebbene l’incidenza delle nuove infezioni sia stabile, è in aumento il numero persone che vive con il virus. E dal momento che colpisce la fascia giovane della popolazione con grosse perdite dal punto di vista sociale ed economico, l’Aids conserva ancora di diritto il ruolo di crisi per eccellenza, non solo sanitaria ma anche dello sviluppo. Allora perché non sfruttarla come traino? “Questa iniezione massiccia di fondi per la lotta all’Aids può essere vista come un’occasione per rafforzare gli altri settori del sistema sanitario”, continua Ferazzi. “E’ vero che si creano più strutture e il personale dedicato agli interventi sull’Aids aumenta, ma ciò può tornare utile. Interventi efficaci possono aiutare ad alleggerire il resto del sistema sanitario, pressato da altre urgenze, e si possono sviluppare sinergie positive. Per esempio, da uno studio recente che ha monitorato un programma finanziato dal Fondo globale ad Haiti, è emerso che le visite prenatali sono aumentate di quattro volte: le donne si recano ai servizi per gli interventi di prevenzione della trasmissione del virus da madre in figlio e ne approfittano per fare visite, vaccinazioni e prepararsi al parto. Gli autori ne hanno concluso che grazie a questo intervento il sistema sanitario si é rafforzato, e non indebolito, e sono migliorate la pianificazione familiare, la qualità della promozione della salute, il morale degli operatori sanitari e la partecipazione di comunità”. 

Non bisogna poi tralasciare un altro importante fattore. È vero che in termini di aspettativa di vita l’Hiv/Aids è un’emergenza comparabile ad altre malattie, ma secondo le stime Oms almeno il 31 per cento delle patologie trasmissibili, materne, perinatali e nutrizionali che colpiscono le popolazioni dei paesi in via di sviluppo sono attribuibili all’infezione. Per non parlare della tubercolosi o della malaria, che sempre più si associano all’Hiv nei paesi dell’Africa sub-sahariana. “Nel caso di queste malattie sarebbe utile, più che in altri casi, una maggiore integrazione degli interventi da parte dei donatori all’interno del sistema sanitario esistente”, conclude Enrico Girardi, direttore del dipartimento di epidemiologia dell’Istituto Lazzaro Spallanzani di Roma. “Se l’Aids attrae così tanti investimenti è anche per la grande visibilità che attivisti e lobby hanno costruito intorno a questa crisi. Inoltre, la donazione, per chi la fa, ha sempre un peso politico e per quanto si potrà riuscire in futuro a razionalizzare gli investimenti e gli interventi, questo è un aspetto su cui non si potrà mai intervenire”.

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