Arriva il dottor Darwin

Da più parti, sia nel contesto della medicina ufficiale – e in particolare nell’ambito della microbiologia e della genetica medica – sia sul versante degli studi evoluzionistici, viene ormai riconosciuta l’esigenza di riesaminare alcuni aspetti della medicina e della sanità pubblica alla luce del pensiero darwiniano. In che modo l’evoluzionismo può contribuire a migliorare la comprensione dei problemi della salute? “La medicina darwiniana” è il tema di SpoletoScienza 1997, l’iniziativa organizzata nell’ambito del Festival dei Due Mondi dalla Fondazione Sigma Tau, a cui partecipano il microbiologo e premio Nobel Joshua Lederberg, il genetista Barton Childs, lo psichiatra Randoph Nesse, i biologi evoluzionisti George Williams e Stephen Jay Gould, lo storico della scienza Pietro Corsi, il neurobiologo Alberto Oliverio, il sociologo Bruno Latour e il semiologo Paolo Fabbri.

Oltre un secolo di straordinari progressi hanno consentito alla medicina scientifica di spiegare la natura di molti meccanismi fisiologici e patologici e di sviluppare numerosi trattamenti terapeutici e preventivi efficaci contro le più diverse malattie. Tuttavia le strategie che hanno finora guidato la ricerca biomedica non paiono sufficienti ad affrontare efficacemente alcune nuove sfide conoscitive e sanitarie, in parte determinate dagli stessi sviluppi della pratica medica. Per quanto riguarda, ad esempio, le malattie infettive è ormai evidente che i cambiamenti ambientali, la variabilità naturale degli agenti patogeni e la crescente mobilità delle popolazioni umane accrescono i rischi di epidemie, dovute a “nuovi” agenti o alla reintroduzione di antiche infezioni anche nei paesi dove oggi si registrano solo come casi d’importazione. La lotta contro le malattie infettive dovrà probabilmente fare uso di nuovi concetti e adottare strategie più flessibili per combattere efficacemente i microrganismi. Concetti e strategie che dovranno cercare di corrispondere a una maggiore conoscenza delle basi biologico-evolutive delle interazioni fra parassiti e loro ospiti.

Più in generale, la medicina scientifica continua a utilizzare uno solo dei due livelli di spiegazione causale che interessano le dinamiche biologiche e, quindi, anche quelle patologiche. Non va dimenticato che la medicina scientifica ha prodotto i suoi eccezionali risultati grazie all’applicazione estensiva, nella seconda metà del secolo scorso, del metodo sperimentale. I fondatori della medicina sperimentale perseguivano l’obiettivo di ricondurre l’eziologia di ogni malattia a un’unica causa, la cui rimozione poteva determinare la remissione dei sintomi e la guarigione della malattia. In tal senso, però, essi dovevano ignorare l’ingombrante presenza della variabilità biologica individuale, che è stata a lungo trattata dai fisiopatologi alla stregua di un fastidioso rumore. Ma che rappresenta in realtà un dato ineliminabile in quantoespressione della natura storica degli organismi viventi.

Inoltre la medicina scientifica, i cui principali esponenti erano anche contrari all’evoluzionismo darwiniano, identificava la causa della malattia con la “causa prossima”, che veniva considerata la spiegazione del fenomeno patologico. Gli sviluppi della clinica e della genetica hanno mostrato che la variabilità individuale è invece la “realtà” con cui ha a che fare il medico. Lo studio delle malattie ereditarie e delle predisposizioni genetiche ha mostrato, invece, che per comprendere l’origine delle malattie si deve tener conto anche delle “cause remote”, ovvero di quei tratti genetici e funzionali acquisiti nell’ambiente evolutivo della nostra specie in quanto adattativi o neutrali. Questi, nell’ambiente attuale, determinano o concorrono a determinare delle condizioni patologiche. Salute e malattia possono essere considerati come aspetti del fenotipo e, in tal senso, non esiste un “tipo ideale” di malattia: i modelli eziopatogenetici delle malattie sono cioè delle semplificazioni e una qualsiasi patologia è una costellazione di manifestazioni singolari.

Un ulteriore aspetto dell’approccio evoluzionistico alla medicina suggerisce che qualsiasi concettualizzazione dello stato di salute e di malattia debba implicare una valutazione del significato adattativo, in senso evoluzionistico, dei processi fisiologici, normali o patologici, presi in considerazione. In altri termini, i medici di fronte ai sintomi e alle manifestazioni di una malattia dovrebbero domandarsi, innanzitutto, quale può essere il loro significato evolutivo, prendendo in considerazione le proprietà dell’ambiente in cui si sono evolute le caratteristiche funzionali dell’organismo, ma soprattutto le differenza fra l’ambiente per il quale tali caratteristiche erano adattative e l’ambiente attuale.

In pratica, ci portiamo appresso un organismo adattato alla savana del Pleistocene, che, per esempio, ha conservato particolari preferenze per alimenti ad alto valore nutritivo, come grassi e zucchero: tali preferenze erano adattative in quell’ambiente, in quanto questi alimenti erano scarsi, mentre oggi, che essi sono disponibili in abbondanza, sono le “cause remote” dell’aumento delle malattie cardiovascolari.

Da un punto di vista evoluzionistico la selezione naturale ha agito massimizzando la capacità degli organismi di trasmettere i propri geni alle future generazioni. Questo comporta che delle condizioni di sofferenza possano essere state selezionate per il vantaggio che procuravano nell’ambiente dell’adattamento evolutivo umano, o per il fatto che erano neutrali. In altri termini, la selezione naturale non opera per promuovere la salute, ma per il successo riproduttivo. E, quindi, alcuni geni o profili genetici che causano malattie possono essere stati conservati perché nell’ambiente evolutivo conferivano qualche vantaggio. Diversi difetti genetici, come l’anemia falciforme e la talassemia, in condizioni di eterozigosi, conferiscono protezione contro malattie infettive e vantaggi adattativi in certe fasi dello sviluppo fetale. Gli organismi, inoltre, sono lungi dall’essere perfetti, e spesso noi paghiamo in termini di disturbi il fatto che alcune nostre caratteristiche adattative rappresentano dei compromessi, come nel caso della funzione immunitaria che consente di difenderci dalle infezioni, ma che può anche causare allergie o malattie autoimmuni.

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