A venti anni dal bando internazionale del commercio dell’avorio della Cites (Convention on International Trade in Endangered Species of Wild Fauna and Flora, vedi Galileo), il traffico illegale è in aumento. Le ultime stime, riportate in un articolo sul numero di luglio di Scientific American, parlano di 38.000 elefanti uccisi in Africa annualmente dal bracconaggio per soddisfare la richiesta da parte dei paesi dell’Est, soprattutto Cina e Giappone.
Ma se fino a poco tempo fa non era possibile identificare i paese di provenienza della partite sequestrate – e, di conseguenza, delle maggiori attività di bracconaggio -, una tecnica forense basata sul Dna è ora riuscita a rintracciare l’origine di una delle più grandi partite illegali degli ultimi venti anni. Si tratta di dieci tonnellate, sequestrate nel 2006: tutto questo avorio proviene da un’unica piccola area ai confini tra Tanzania e Mozambico.
Il test, messo a punto nel 2006 dal biologo Samuel Wasser dell’Università di Washington, è molto simile a quello usato in criminologia ed è in grado di identificare con univocità la zona di provenienza dell’esemplare ucciso, in quanto individua le mutazioni del Dna tipiche di ciascuna popolazione. “Conoscere dove sono stati uccisi gli elefanti”, scrive Wasser su Scientific American, è necessario per identificare quei paesi in cui le misure contro il traffico illegale di avorio sono eluse per poter esercitare pressioni sui governi affinché vengano rafforzate”.
Secondo il ricercatore, infatti, i risultati dimostrano per la prima volta che, contrariamente a quanto supposto finora, i grandi carghi di avorio confiscati negli ultimi anni provengono da operazioni coordinate da grandi organizzazioni criminali piuttosto che dal “raccolto” di piccoli gruppi di bracconieri isolati. Questo nuovo quadro del traffico illegale d’avorio lascia supporre la complicità delle istituzioni competenti e dei politici dei paesi maggiormente coinvolti nel traffico illecito. “Sarebbe certamente utile – sostiende Wasser – una maggiore disponibilità dei paesi come il Giappone, che nonostante si sia detto disponibile a collaborare alle indagini basate sul test a Dna, a tutt’oggi ancora non ha fornito campioni per le analisi”. (f.f.)