Bhopal, 18 anni dopo

Era la notte tra il 2 e il 3 dicembre del 1984, quando dagli stabilimenti di pesticidi della Union Carbide di Bhopal, città indiana del Madhya Pradesh, si sprigionarono 40 tonnellate di gas letali: il più grande disastro chimico della storia, che oggi conta 20 mila morti e migliaia di ammalati. Vent’anni dopo, una mostra fotografica racconta quella tragedia attraverso le immagini in bianco e nero scattate da Raghu Rai, il fotografo indiano della agenzia Magnum che quella tragica notte era lì. E che lì è tornato dopo 18 anni, per testimoniare come le conseguenze dell’incidente siano ancora tangibili. Poco o nulla è stato fatto per i sopravvissuti, ancora in fila davanti ai centri medici in attesa di cure che non possono permettersi di pagare. ‘Bhopal a Venezia’ è ospitata fino al 14 novembre nelle sale della Fondazione Querini Stampalia, ed è stata organizzata dalla stessa fondazione in collaborazione con Greenpeace e il Centro Pace e Ambiente del Comune di Venezia. Quando aveva aperto i battenti, la fabbrica della Union Carbide a Bhopal aveva attratto migliaia di persone, che si stipavano intorno alla rete di recinzione, mendicando un lavoro e un salario che garantisse loro la sopravvivenza. E, ironia della sorte, molti di loro trovarono la morte. I sopravvissuti oggi chiedono giustizia per se stessi e per le centinaia di bambini nati con malformazioni e malattie a causa dei veleni. E per quelli mai nati a causa degli aborti spontanei che si verificarono all’indomani dell’incidente. Il risarcimento che le vittime di Bhopal hanno ottenuto da un accordo extragiudiziale tra la Union Carbide e il governo indiano è stato infatti ridicolo. Di fronte a un ammontare complessivo di tre miliardi di dollari chiesto alla multinazionale chimica, dopo cinque anni di battaglie legali è stata fissata una ricompensa del tutto simbolica, tra i 350 e i 570 dollari per ciascuna vittima. Oltre al danno, la beffa: secondo le ultime stime a oggi la società ha effettivamente consegnato alla popolazione solo il 10 per cento di quella somma. Nemmeno i responsabili del disastro hanno saldato il loro conto con la giustizia. Un mandato di cattura internazionale non è riuscito a portare in tribunale l’allora presidente della multinazionale americana Warren Anderson, che vive oggi tranquillamente nella sua villa in Florida. Non si sa insomma ancora oggi chi fosse responsabile per la scarsa o nulla manutenzione della fabbrica, per la disattenzione delle elementari norme di sicurezza (gli allarmi antincendio erano stati staccati poiché ‘scattavano’ continuamente per le ricorrenti fughe di gas). Dal 1999 la Union Carbide non esiste più: è stata venduta alla più grande multinazionale chimica mondiale, la Dow Chemicals (che ha comprato anche gli stabilimenti di Porto Marghera), alla quale oggi spetterebbe la bonifica di Bhopal. “Gli stabilimenti indiani dovrebbero essere considerati una passività nell’acquisto della Union Carbide”, spiega Fabbri. “La Dow Chemicals inoltre dovrebbe assicurare l’assistenza medica e la riabilitazione ai sopravvissuti e fornire acqua potabile alle comunità residenti”. Recentemente il Ministro indiano per Bhopal (che si occupa cioè delle conseguenze del disastro) ha annunciato di voler chiedere alla società di affrontare le spese di bonifica della zona, e se questa dovesse fare orecchie da mercante ha minacciato di adottare una soluzione simile al superfund statunitense. Cosa significa ‘superfund’ lo spiega ancora Fabri: “sarebbe un fondo ispirato più o meno al principio del ‘chi inquina paga’, ovvero il governo si accolla l’onere della bonifica ma punisce la società che ha inquinato con una multa maggiorata”. Un lieto fine della contesa giudiziaria sul disastro di Bhopal? Dopo la beffa dell’accordo extragiudiziale, in molti aspettano di vedere cosa saranno capaci di fare in futuro le autorità indiane. Presentata a Johannesburg in occasione del vertice dello scorso agosto, la mostra arriva in Italia dopo una tappa indiana. La scelta di Venezia non è frutto del caso. Sulla laguna veneziana si affacciano infatti gli stabilimenti di Porto Marghera dove da trent’anni su poco più di 2000 ettari sono presenti duecento industrie che producono sostanze chimiche di base, polimeri, plastiche e prodotti di raffinazione del petrolio e “dove si consuma un clamoroso caso di inquinamento industriale a base di sostanze altamente tossiche come diossine, Pcb (policlorobifenili), esaclorobenzene, cadmio, mercurio, e cromo”, chiarisce Fabrizio Fabbri, direttore scientifico di Greenpeace Italia. Ma c’è anche un’altra coincidenza: la produzione di cloro e Pvc (polivinilcloruro) fu avviata a Porto Marghera negli anni Venti con la consulenza di due multinazionali americane, la Mosanto e la Union Carbide, la stessa presente a Bophal.

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