Bimbi in calo del 30%

A poco più di un anno dall’entrata in vigore della legge sulla fecondazione assistita si cominciano a fare i primi bilanci. Il fischio di inizio è stato dato dagli operatori dei laboratori dei centri di infertilità, biologi ed embriologi riuniti nella Società Italiana di Embriologia Riproduzione e Ricerca (Sierr), che nell’ambito del III Congresso nazionale hanno confrontato 1000 cicli di trattamenti con fecondazione in vitro e microiniezione, realizzati prima dell’approvazione della legge, con 800 cicli effettuati successivamente, in venti laboratori, rappresentativi delle diverse realtà regionali del nostro paese. Risultato: una diminuzione del 30 per cento del numero di gravidanze portate a termine, ovvero dei “bimbi in braccio”, una percentuale che include anche le donne più giovani, quelle al di sotto dei 35 anni e con una una buona risposta ovarica alla stimolazione ormonale.

“Il forte calo è dovuto all’obbligo di trasferire tutti gli embrioni prodotti, indipendentemente dalla loro qualità cellulare e genetica, a esclusione di quel 7 per cento che alla diagnosi osservazionale e secondo le linee guida, risulti fin dalle prime ore destinato a non evolversi o addirittura a diventare una mola vescicolare, in poche parole un tumore”, afferma Carla Tatone, ricercatrice dell’università dell’Aquila e vicepresidente della Sierr. Quindi, mentre non si sono modificate le percentuali di fertilizzazione, confermate al 60-70 per cento, appare invece consistente la riduzione del numero degli embrioni evolutivi. Con due conseguenze immediate, prosegue Paolo Artini neoeletto presidente della Sierr: “l’incremento degli aborti spontanei precoci, che oggi, dopo la legge, si attestano al 44 per cento, e un maggior rischio per la salute psicofisica della donna”. Infatti, non solo gli aborti spontanei per una donna che abbia fortemente voluto una gravidanza costituiscono un vero e proprio danno sul piano psicologico, ma aver limitato a tre gli ovociti da fecondare, pur di non superare il limite imposto di tre embrioni da produrre, sottopone le donne alla somministrazione di una maggiore quantità di ormoni, perché è cresciuto il numero di cicli per poter conseguire il risultato della gravidanza a termine.

“E’ importante sottolineare”, aggiunge Giulietta Micara del Policlinico Umberto I di Roma, “che nel tentativo di osservare le normative e quindi di non fertilizzare più di tre ovociti, abbiamo diminuito per coerenza le dosi di ormoni per la stimolazione, ma il risultato è peggiorato. Infatti, non solo si è osservata la diminuzione del numero di ovociti prodotti, dopo un protocollo di stimolazione, ma anche la loro qualità ne ha risentito. E da un ovocita di qualità non ottimale non potrà mai essere generato un embrione che sia capace di impiantarsi e poi di svilupparsi fino a diventare un bambino”. Anche se ancora non si sono chiariti i meccanismi alla base di questa diversa efficacia della stimolazione, quello che appare chiaro è che il farmaco funziona diversamente se si modificano le dosi: anche se viene prolungata nel tempo la somministrazione la dose è depotenziata e si verifica un sorta di effetto di invecchiamento sull’ovocita. “Ciò a conferma che non sono gli operatori che devono modificare i protocolli nel tentativo di rincorrere le norme dettate dal legislatore, ma è quest’ultimo che dovrebbe tener conto dei dati scientifici, soprattutto in un ambito come la fecondazione assistita, dove la complessità dei fattori in gioco è davvero alta”, conclude Giulietta Micara.Infine, gli embriologi hanno confermato all’unanimità il giudizio sull’uso di ovociti congelati.

“Una pratica del tutto sperimentale, che non può essere abusata a scapito delle pazienti e facendo gravare su di loro anche i costi”, conferma Paolo Artini. Infatti, nel mondo sono pochissimi i bambini nati da ovocita congelato e non è un caso, secondo la Sierr che anche la sperimentazione sia limitata a pochi paesi. Si tratta, infatti di una metodica cosiddetta a bassa resa, di cui sarebbe opportuno parlare nei termini di una pratica clinica e limitarsi a una fase di studio e di ricerca più cauta.

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