Biobrevetti? No grazie

Greenpeace, Wwf e Verdi cantano vittoria. E con loro Dario Fo, premio Nobel per la letteratura. L’Italia ha detto no alla brevettazione di animali, piante e parti del corpo umano, e chiede all’Europa regole più severe sulle biotecnologie: martedì scorso Camera e Senato si sono dichiarati contrari, a grande maggioranza, alla direttiva dell’Unione europea sugli organismi geneticamente modificati.

Il governo italiano si impegnerà in sede internazionale ad affermare che “il corpo umano, ad ogni differente stadio della sua costituzione e sviluppo, ed ogni suo elemento, non costituiscono invenzioni brevettabili”. Di più: l’Italia, che insieme al Belgio si era astenuta durante la votazione del progetto di legge europeo, approvato il 27 novembre scorso con il solo voto contrario dell’Olanda, chiede ora una moratoria sulle biotecnologie in attesa di una nuova direttiva comunitaria. Nel frattempo si rifiuta di autorizzare la coltivazione del mais transgenico, già approvata in molti paesi europei, e chiede che gli alimenti derivati da organismi modificati dichiarino esplicitamente sull’etichetta la propria origine biotecnologica.

In realtà la bozza della direttiva contestata, che tornerà in discussione a Strasburgo per il voto definitivo in aprile o maggio, aveva visto la luce già nel 1988. Il personaggio chiave di questa lotta decennale porta il nome insipido ma importante di “Ipr”: Intellectual Property Rights, diritti di proprietà intellettuale. Ovvero le royalties e il copyright sui brevetti, che le compagnie biotecnologiche vogliono vedere estesi anche agli organismi viventi e al loro Dna.

Negli Usa i brevetti sulla vita sono una realtà da anni. Il primo essere vivente brevettato risale al 1980: è un batterio mangia-petrolio creato dalla General Electric. Nel 1985 è la volta delle piante geneticamente modificate, e dal 1987 si possono brevettare anche i mammiferi e gli altri animali manipolati geneticamente. Non solo: secondo la legislazione statunitense anche i geni possono essere brevettati. Risultato? Un giro di decine di miliardi di dollari, e una corsa sfrenata alla registrazione di ogni sequenza genica utile.

Così, c’è chi ha chiesto la brevettazione per le cellule del cordone ombelicale umano (utili per i trapianti), quella di piante medicinali amazzoniche o della tradizione indiana, persino quella di sequenze di geni umani connessi con lo sviluppo cerebrale. Le compagnie biotecnologiche chiamano “bioprospecting” questa nuova febbre dell’oro. Obaidullah Khana, vicedirettore generale della Fao, ha coniato invece per queste pratiche la definizione di “biopirateria”. Perché la brevettazione della biodiversità rischia di aprire la strada a nuove depredazioni e a un nuovo colonialismo nei confronti dei paesi del sud del mondo. Oltre il 75% della biodiversità si trova nei paesi in via di sviluppo. Ma a brevettarla sono compagnie del nord industrializzato, che possiedono (brevettati anch’essi) gli strumenti tecnologici per farlo.

Secondo le industrie e la maggior parte dei ricercatori, i brevetti sono indispensabili al progresso biotecnologico. Il teorema, all’incirca, è: senza brevetti niente investimenti privati sulle biotecnologie, e quelli pubblici non bastano. Ma il problema, ribattono gli ambientalisti di tutto il mondo, è nell’impatto che la pratica della brevettazione avrà fuori dei laboratori: nei campi coltivati e nelle città dei paesi del sud del mondo.

Per Vandana Shiva, ricercatrice indiana del Third World Network, celebre nel mondo per i suoi libri e le lotte a favore dei paesi in via di sviluppo, le conseguenze economiche ed ecologiche della brevettabilità del vivente sono disastrose. Solo per citarne tre: estinzione delle varietà locali di piante, spodestate da quelle brevettate, più competitive sul mercato estero; scomparsa dei piccoli proprietari terrieri, costretti a vendere ai latifondisti perché incapaci di pagare le royalties sui semi brevettati; aumento del debito estero dei paesi in via di sviluppo e della dipendenza dal nord del mondo.

Ma gli Stati Uniti, che ogni anno incassano dal Terzo mondo royalties per 60 miliardi di dollari, hanno dedicato una vera crociata alla causa della brevettazione. Nel 1992, alla Conferenza mondiale sulla biodiversità di Rio de Janeiro, George Bush aveva rifiutato di firmare la Convenzione, unico fra centinaia di partecipanti. Il motivo è dichiarato esplicitamente: gli Stati Uniti non amano che le leggi di protezione degli Ipr subiscano limitazioni in nome della conservazione della diversità biologica. L’adesione degli Usa arriva solo due anni dopo per mano di Bill Clinton, che però promulga una “interpretazione” americana alla Convenzione, che recita fra l’altro così: “gli Usa non riconosceranno leggi nazionali che restringano la brevettazione”.

Così, ad esempio, per la legislazione indiana non sono brevettabili i farmaci importanti, né le piante alimentari: la gente deve poterne disporre senza pagare diritti d’autore a compagnie private. Oggi gli accordi mondiali sul commercio (Gatt e Trip) impongono all’India di adeguarsi entro cinque anni alle leggi di tipo Usa sugli Ipr, e concedere i brevetti alle compagnie straniere.

L’Europa è indecisa da dieci anni sulla brevettazione della vita. Nel 1989 aveva stabilito che gli oncotopi transgenici, topolini utilizzati per la ricerca contro i tumori, non fossero brevettabili. Salvo poi cambiare idea, nel 1990, rilasciando il brevetto. E revocandolo tre anni dopo, stabilendo che gli animali non possono essere considerati invenzioni umane. Infine, nel novembre scorso, il vecchio continente si è rassegnato ad allinearsi allo standard che gli Usa propongono come universale. La bozza di legge è pronta e approvata: cloni umani a parte, il vivente è brevettabile. Ma ecco che dall’Italia, inaspettato, arriva un monito: sì alla ricerca e allo sviluppo biotecnologico, ma a patto di non causare “danno all’agricoltura dei selezionatori di varietà vegetali” e “aggravamento dello scambio ineguale tra Nord e Sud del mondo”. Per le industrie è solo la protesta irrazionale, provinciale, di gente con poca familiarità di scienza, “un’inutile lotta contro il progresso”. Ma i contadini indiani ringraziano.

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