Stagnante. E’ la situazione della ricerca scientifica in Italia così come la descrive il rapporto”Scienza e tecnologia in cifre 1997”, realizzato dall’Istituto di studi sulla ricerca e documentazione scientifica del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr). “Gli anni Novanta sono stati un periodo di ristagno per la ricerca in tutti i paesi sviluppati”, dice Mario Pianta, uno dei ricercatori che hanno curato il rapporto. “L’Italia poteva approfittarne per recuperare il terreno perduto. Invece ha accumulato ulteriori ritardi”.
Già, perché le cifre e i grafici elaborati dal Cnr non lasciano dubbi sulla crisi che attraversa la scienza italiana. La spesa in ricerca e sviluppo nel nostro paese è tornata al di sotto dell’1,2 per cento del prodotto interno lordo. Il tetto dell’1,2 per cento era stato sfondato nel 1987. Nel1991 c’era stata il massimo della spesa in ricerca e sviluppo: l’1,3 per cento del prodotto interno lordo. Poi è iniziata la discesa che ancora non si è arrestata e che ha portato gli investimenti all’1,1 per cento nel 1996 . Una spesa che colloca l’Italia alle spalle di molte nazioni industrializzate. Gli Stati Uniti per la ricerca e la tecnologia spendono il 2,6 per cento del prodotto interno lordo, la Germania e la Francia il 2,3 per cento, il Canada l’1,6.
Oltre che per la quantità degli investimenti, l’Italia si distingue anche per la loro provenienza. L’amministrazione pubblica e le imprese condividono l’onere della spesa con quasi il 50 per cento a testa. Altrove invece sono i privati a investire di più sulla ricerca. Le industrie giapponesi pagano oltre il 70 per cento della ricerca e quelle tedesche il sessanta. Ma in Italia sono proprio le industrie a trarre i maggiori benefici. Va infatti a loro il 59 per cento dei soldi investiti in ricerca contro il 21 per cento a disposizione dello stato e il 22,5 per cento delle università. E sono le industrie le prime a fuggire dalla ricerca e sviluppo nei momenti di recessione. “A partire dal 1992 le imprese italiane”, fa notare Mario Pianta, “hanno ridotto gli investimenti più del settore pubblico. Anche per questo motivo quella che sembrava un crisi passeggera si è trasformata in una riduzione strutturale”.
Pubblica o privata che sia la ricerca italiana è comunque concentrata solo in alcune regioni. Guidano la classifica della spesa in ricerca e sviluppo il Lazio, la Lombardia e il Piemonte. Tutte le altre regioni sono ben distanziate perché a corto sia dei finanziamenti della pubblica amministrazione (presenti soprattutto nel Lazio) sia degli investimenti delle aziende (il vero punto di forza di Lombardia e Piemonte).A soffrire della stagnazione sono soprattutto coloro che la ricerca dovrebbero farla. In Italia ci sono 33 ricercatori ogni diecimila lavoratori. Negli Stati Uniti sono 74, nel Regno Unito 52, in Giappone 81, in Germania 58, in Francia 59, in Canada 52. Pochi scienziati significa anche poche pubblicazioni. Solo il 2,8 per cento del totale che è dominato dagli Stati Uniti (32 per cento)E negli utimi anni è diminuito anche il numero di brevetti richiesti da aziende e istituzioni italiane, uno degli indicatori più significativi della capacità di innovazione di un paese. Sette anni fa i brevetti richiesti erano il 3,6 per cento del totale, nel 1995 sono stati il 3,4. Numeri davvero piccoli se confrontati con quelli degli Stati Uniti che su cento brevetti ne detengono 29. Tra il ‘90 e il ‘92 una impresa italiana su tre ha fatto innovazione ma si è trattato di un fuoco di paglia. “Anche perché”, concude Pianta, “non si è inventato alcun nuovo prodotto. E’ stata solo una innovazione di processo, ottenuta investendo in macchinari e adottando nuovi sistemi di produzione”.