Cellule cannibali

Voraci fino a cibarsi le une delle altre. Le cellule metastatiche di melanoma presentano un’intensa attività fagocitica di tipo “cannibale” improntata alla lotta per la sopravvivenza. E questa caratteristica, nota da tempo ma considerata finora marginale, rappresenta un vantaggio selettivo cruciale per lo sviluppo dei tumori maligni. È quanto emerge da un recente studio condotto dall’Istituto Superiore di Sanità in collaborazione con l’Istituto Tumori di Milano. Ne abbiamo parlato con Stefano Fais, coordinatore di uno dei gruppi di ricerca.In che cosa consiste l’attività fagocitica delle cellule metastatiche?“La presenza di cellule con all’interno altre cellule è un fenomeno noto all’oncologia da più di 100 anni. Ma è stato finora considerato alla stregua di una semplice curiosità. Noi invece riteniamo che si tratti di un aspetto chiave nello sviluppo dei tumori. È proprio questa attività fagocitica, che spinge le cellule metastatiche a cibarsi di tutto ciò che le circonda, cellule vive, in apoptosi o linfociti, a garantirne la sopravvivenza. È il vantaggio selettivo che gli consente di vincere la lotta fratricida e continuare a proliferare anche in un ambiente ostile. Le cellule metastatiche cioè riescono ad avere la meglio sulle altre, in termini di selezione darwiniana, proprio per la presenza di un corredo che gli permette di mangiare per cibarsi. Una volta chiarito questo possiamo sperare di trovare finalmente cure efficaci capaci di inibire un processo che con alcune terapie rischiamo addirittura di favorire”.A quali terapie si riferisce?“A quelle antiangiogenetiche, per esempio, che stanno dimostrando la loro inefficacia perché basate su un approccio errato. Queste cure provocano infatti la necrosi delle cellule tumorali per ipossia, ossia per mancato apporto di ossigeno. Ma in questo modo si ottiene un risultato paradossale: si favorisce l’estinzione delle cellule più deboli e la sopravvivenza delle più resistenti, che si rafforzano ulteriormente perché possono cibarsi di quelle morte. Anche la cosiddetta teoria del “gene fragile”, che punta tutto sulla responsabilità di un unico gene, non tiene conto delle condizioni casuali, che riguardano più di un gene, che permettono la formazione di un contesto favorevole allo sviluppo della fagocitosi delle cellule metastatiche”. In che modo e in quali cellule siete riusciti ad individuare l’attività fagocitica? “Grazie a un nuovo test siamo riusciti a individuare la presenza di attività fagocitica nelle cellule di melanoma in vitro; solo però in quelle derivanti da lesioni metastatiche e non in quelle derivanti da lesioni primarie. Il test si basa sull’aggiunta di lieviti colorati rosso congo a colture di cellule tumorali. Sono state analizzate otto linee cellulari derivanti da melanomi primari e 11 linee cellulari derivanti da metastasi di melanoma. Ebbene tutte le cellule derivate da lesioni metastatiche avevano assorbito i lieviti. Grazie a indagini simili sarà possibile perfezionare la prognosi dei pazienti oncologici, riuscendo a predire, dalla presenza o meno di attività fagocitica, chi tra loro svilupperà metastasi”. Come fanno le cellule metastatiche a cibarsi le une delle altre?“Abbiamo scoperto che la loro attività fagocitica è più simile a quella di organismi unicellulari privi di intestino come le amebe piuttosto che a quella dei macrofagi. Questi ultimi infatti, come evidenziato per la prima volta nel 1884 da Elie Da Metchnikoff, mangiano per proteggere l’organismo dagli attacchi di agenti estranei. Inglobano e digeriscono virus, batteri, e protozoi tramite l’emissione di propaggini, un meccanismo di difesa che richiede un considerevole dispendio energetico. Le cellule metastatiche invece mangiano esclusivamente per cibarsi e apparentemente lo fanno senza alcuna fatica. La fagocitosi avviene infatti in condizioni estremamente tranquille, come se il cibo venisse deglutito da sabbie mobili. Inoltre, proprio come gli organismi unicellulari, le cellule metastatiche si comportano come se ognuna fosse un individuo a sé stante. Cioè non si relazionano tra loro, sono prive di quella che viene definita inibizione da contatto (il meccanismo mediante il quale le cellule sane inibiscono la loro crescita in una coltura quando entrano in contatto, ndr.)”Quali obiettivi vi prefiggete adesso?“Innanzitutto approfondire la caratterizzazione del fenomeno. Poi tentare di capire come fare per inibirlo. Per ora siamo riusciti a dimostrare sui topi il ruolo chiave dell’ezrina (una proteina in grado di connettere le membrane cellulari ai filamenti di actina) nel favorire l’attività fagocitica. Per cui si potrebbe puntare su terapie che inibiscano l’ezrina. Tra i nostri scopi c’è anche quello di perfezionare l’aspetto prognostico e di conseguenza quello preventivo”.

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