Chi dorme piglia pesci

Da millenni ci si interroga sui segreti del sonno: cosa succeda nelle ore di parziale incoscienza che separano la sera dal mattino nessuno è mai riuscito a svelarlo completamente. La controversia scientifica comincia a farsi più chiara solo nel 1929, anno in cui lo psichiatra tedesco Hans Berger ideò l’elettroencefalogramma (Ecg). Da allora gli scienziati hanno cercato di risolvere il mistero del sonno monitorando questa fase della nostra vita con strumenti sempre più sofisticati. Tra gli altri, gli esperimenti di deprivazione da sonno, che sembrano avvalorare la tesi secondo cui la mancanza di sonno può compromettere gravemente la salute mentale.

L’assenza forzata di sonno porta in casi estremi alla follia e alle allucinazioni, tanto che questa pratica è stata spesso utilizzata come barbara forma di tortura. Ma anche quando è limitata, la mancanza di sonno comporta una drastica perdita di memoria. Questo almeno è il risultato sperimentale a cui sono giunte due équipe di ricerca. Quella dell’Harvard Medical School, guidata da Robert Stickgold, e quella della Clinica di neuroendocrinologia della Medical University di Lubecca in Germania, guidata da Steffen Gais. Entrambi gli studi sono stati pubblicati sul numero di dicembre di Nature Neuroscience e sembrano confermare l’ipotesi secondo cui dormire rafforza le tracce mnemoniche. O meglio: dormire è essenziale per il corretto funzionamento della memoria.

La metodologia seguita nei due esperimenti è la stessa: 24 persone vengono sottoposte a un test di apprendimento visivo. Su uno schermo passano in rapida successione – per un intervallo di 1/60 di secondo – delle linee diagonali. I soggetti devono riuscire a individuarne e memorizzarne l’orientamento. Subito dopo la prova vengono sottoposti al recupero mnemonico delle immagini. Poi la metà del campione si concede una salutare notte di sonno, mentre l’altra metà rimane sveglia.

Nei due giorni che seguono, entrambi i gruppi dormono normalmente e al quarto giorno vengono nuovamente interrogati sulle immagini acquisite all’inizio dell’esperimento. Ebbene, il gruppo che era stato privato del sonno durante la prima notte ottiene risultati inferiori a quelli del test precedente. Mentre l’altro gruppo mostra evidenti miglioramenti nel recupero delle tracce mnemoniche. Secondo Robert Stickgold, responsabile dello studio americano “questa è la prova evidente che il sonno avvia un processo di consolidamento delle memorie”.

Per la verità nono tutti concordano. “E’ una prova incoraggiante, ma non definitiva”, commenta Alberto Oliverio, docente di Psicobiologia all’Università “La Sapienza” di Roma, “già in passato si erano tentati esperimenti simili sulla memorizzazione delle immagini, ma il dubbio che non si riusciva a sciogliere era se queste immagini, riproposte durante il sonno, fossero veramente il frutto di una memorizzazione o semplicemente un residuo diurno. A mio parere neanche questi due studi riescono a sciogliere definitivamente il dubbio”. Oliverio cita anche l’ipotesi avanzata già nel 1959 da Michel Jouvet, il neurobiologo che scoprì la cosiddetta fase Rem o sonno paradosso. “Jouvet riteneva che la fase Rem fosse essenziale per il consolidamento delle memorie istintuali negli animali e delle memorie acquisite nell’uomo. In realtà gli esperimenti hanno dimostrato che non vi era alcun legame tra memorie istintuali e sonno Rem, perché la deprivazione da sonno non sortiva alcun effetto sulla loro acquisizione”. E aggiunge: “Quattro giorni non sono sufficienti per distinguere una memoria da un residuo”.

Più particolareggiato il secondo esperimento, quello condotto dall’équipe di Steffen Gais, che evidenzia quale momento della notte sia maggiormente coinvolto nella memorizzazione. I ricercatori distinguono tra due fasi del sonno: quello a onde lente (Sws), che subentra appena dopo l’addormentamento, e quello a onde rapide (Rem), che subentra in fase di sonno già profondo. E’ il primo sonno (Sws) che riordina le tracce mnemoniche, mentre la successiva fase Rem le consolida. La seconda fase da sola non sortisce alcun effetto, mentre la successione delle due procura i migliori risultati sul piano dell’apprendimento.

“E’ questo l’aspetto veramente interessante, anche se non completamente nuovo, dello studio”, spiega Oliverio. “Fino a oggi le ricerche sul sonno si erano concentrate quasi esclusivamente sulla fase Rem, mentre anche il sonno a onde lente – la cosiddetta fase di transizione del sonno – può avere un ruolo nell’apprendimento e nella memorizzazione”.

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