Cittadino stipendiato

Il dibattito sul rapporto tra salario proveniente dal lavoro e reddito complessivo di vita è vecchio almeno quanto la rivoluzione industriale. Già alla fine del Settecento le Poor Laws inglesi assicuravano ai poveri dei distretti rurali un minimo di sussistenza indicizzato sul prezzo del pane (1). La questione ha accompagnato la storia del movimento operaio, riprendendo vigore negli Stati Uniti e in Europa alla fine degli anni Settanta, producendo un ampio ventaglio di riflessioni, dalla destra liberista fino ai nascenti movimenti ecologisti o di sinistra.

Fino agli anni Settanta infatti, nell’ambito del modello economico fordista-taylorista-keynesiano, le politiche industriali e del welfare, soprattutto nei Paesi europei, hanno riguardato la figura del lavoratore a tempo indeterminato, attraverso una progressiva copertura assistenziale “dalla culla alla tomba”. Il lavoro è stato immaginato come l’elemento di accesso privilegiato, se non l’unico, alla piena cittadinanza sociale. La nostra Costituzione per esempio, recepisce pienamente tale orientamento, soprattutto nel Titolo III, quello dedicato ai rapporti economici (2) e, già all’articolo 1, il fondamento della Repubblica italiana è individuato nel lavoro. Questo riferimento va inteso non in senso classista, ma in senso democratico, contro i privilegi o i residui nobiliari (3).

Il lavoro, in un’accezione pienamente democratica, diventò un dovere necessario allo sviluppo della persona e della comunità di appartenenza. Per molti anni è stato visto così, sia a destra che a sinistra. L’economia fordista assicurava un’occupazione proporzionale allo sviluppo produttivo e il lavoratore si trovava coerentemente inserito nella catena lavoro-produzione-salario a cui poi si è aggiunto, non senza battaglie sociali lunghe e aspre, l’ultimo anello, quello del welfare. Questo modello economico è entrato in crisi quando l’avvento dell’imponente rivoluzione tecnologica ha innovato tutto il panorama sociale dei Paesi industrializzati richiedendo sempre meno lavoro, distribuendo così meno salari.A partire degli anni Ottanta, alla difficoltà intrinseca del sistema postfordista di assicurare lavoro sufficiente, si è accompagnata la precarizzazione dei rapporti sociali rimasti.

Anche se il sistema continua periodicamente a creare nuova occupazione, questa è sempre più ciclica, flessibile, totalmente inserita nei moderni processi produttivi regolati sul lavoro delle macchine. Questa difficoltà non sembra dovuta al fatto che manchi il lavoro – che viene ancora creato – ma alla natura intrinseca della produzione della nuova ricchezza. Quasi tutti gli analisti hanno interpretato questo semplice fatto come un segnale di debolezza del sistema economico postfordista, anzi, un segnale potenzialmente devastante.Ultimamente quindi sono state elaborate diverse soluzioni. I paesi anglosassoni per esempio, prima gli Stati Uniti sotto la presidenza Clinton e poi la Gran Bretagna del New Labour di Blair, hanno via via disegnato un sistema assistenziale basato sul workfare.

I residui ammortizzatori sociali e i sussidi di base (il welfare), generalmente molto bassi, vengono erogati solo a determinate condizioni, come accettare un’offerta di lavoro, impegnarsi nel cercarne uno o effettuare lavori “socialmente utili” (workfare).Accanto a questa concezione, generalmente conservatrice, che stigmatizza i disoccupati come una risorsa sprecata da stimolare attraverso un condizionamento della protezione sociale, è fiorita una corrente di pensiero tanto vasta quanto eterogenea. Nelle sue varie argomentazioni, l’idea di fondo è quella di recepire compiutamente il divorzio in atto tra reddito e salario, liberando le energie delle persone verso altri legami sociali (per esempio quelli affettivi o comunitari), salvaguardando la dignità e le possibilità di vita di tutti.

La società immaginata da questi diversi sociologi, filosofi, politici, movimenti, è una società postindustriale in cui l’obiettivo primario non è più produrre una quantità crescente di ricchezza, ma distribuirne la quantità complessiva. Parallelamente, mentre nelle nostre società ricche diminuisce la necessità del lavoro, esso diminuirà anche nella vita di ognuno e quindi sarà distribuito a tutti in maniera più equa.È insomma una via di uscita dall’empasse attuale che immagina una distribuzione maggiore del tempo (riduzione dell’orario di lavoro) e della ricchezza (reddito di esistenza). Ovviamente, per motivi di bilancio statale, questi interventi economici non saranno aggiuntivi a quelli esistenti, ma li sostituiranno. Rompere il legame reddito/salario in questo modo significa dare più dignità e potere di scelta ai lavoratori marginali o in part-time (volontario o strutturale che sia) e costruire progressivamente una società basata sul tempo liberato dal lavoro e non più centrata su di esso (4).

Per farlo, le proposte avanzate sono tantissime, da quelle più radicali a quelle più moderate, alcune delle quali, per restare al nostro paese, sono state sperimentate (Legge Turco) o trasformate in disegni di legge da diverse forze politiche parlamentari. Schematicamente si possono definire così, classificate secondo parametri di lunghezza temporale, grado di universalità e presenza di determinate condizioni o obblighi:Reddito di esistenza (o di cittadinanza): è un’erogazione economica universale, regolare e perpetua in grado di garantire una vita dignitosa, indipendentemente dalla prestazione lavorativa effettuata. Il reddito di esistenza rende così possibile l’effettivo esercizio dei diritti di cittadinanza, annullando i vincoli economici.

È la forma di assistenza più innovativa: universale e incondizionata. L’idea è quella di erogare a tutti, raggiunto un limite di età, per esempio i 18 anni, una certa somma monetaria che sostituisca tutte le diverse prestazioni assistenziali attuali (cassa integrazione, sussidi di disoccupazione, prepensionamenti, etc., escluse le pensioni vere e proprie e l’assistenza alle famiglie). Come calcolarla? I sistemi possibili sono almeno tre: a) povertà relativa: distribuire una cifra immediatamente superiore all’indice di povertà (in Italia si definisce povero chi ha un reddito minore o uguale al 60 per cento del reddito procapite (5); b) povertà assoluta: prendere un paniere di beni di consumo minimo per la sopravvivenza (trasporti, istruzione, abbigliamento, alimentazione, etc.) e calcolare il reddito necessario a usufruirne; c) erogazione gratuita non monetaria di beni primari: casa, affitto, trasporti, salute, etc. .

Per chi già detiene un reddito da lavoro superiore al reddito di esistenza, la forma concreta sarà ovviamente quella della detassazione della quota di reddito universale individuata.Reddito garantito: integrazione del reddito solo per chi si trova al di sotto della soglia di povertà. È un’erogazione di sostegno indipendente dalla prestazione lavorativa, quindi è incondizionata, ma non è universale.Reddito minimo vitale: è la proposta più restrittiva ed è la più diffusa in Europa (in Francia si chiama Rmi). È un’erogazione temporanea, per esempio non può superare i 2 anni. È sottoposta a determinate condizioni (iscrizione al collocamento e parametri di reddito) e generalmente vincolata alla ricerca di un’occupazione o alla frequenza di corsi di aggiornamento o formazione professionale.

È quindi condizionata, non universale e molto limitata nel tempo.Questo nuovo modo di intendere il welfare come diritto a un basic income (reddito universale di base), sembra lontano dalla nostra realtà politica quotidiana ma è in realtà prefigurato dalla Carta dei Diritti Europea recentemente approvata. L’articolo 34 infatti afferma: “Ogni individuo che risieda o si sposti legalmente all’interno dell’Unione ha diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali (…). Al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto comunitario e le legislazioni e prassi nazionali” (corsivo mio).

Va sottolineato come le prestazioni non siano espressamente vincolate alla cittadinanza (sembrerebbero rientrarvi quindi anche i cittadini extracomunitari residenti in Europa) e che non sono citati vincoli espliciti alle erogazioni. Sembra quindi istituito un diritto universale e incondizionato. Tuttavia, l’applicazione concreta di questa e delle altre norme della Convenzione è ancora da definirsi.Si ringraziano Andrea Fumagalli (Università di Pavia) e Giuseppe Bronzini (Magistrato del lavoro) per i chiarimenti e l’aiuto che mi hanno gentilmente offerto.

NOTE

(1) A. Gorz, 1992, Metamorfosi del lavoro, Bollati Boringhieri, p. 224.
(2) Soprattutto negli articoli 36 e 38.
(3) Illustrando la formula attuale all’Assemblea Costituente, l’autore (l’on. Fanfani), affermò che essa esprimeva “il dovere di ogni uomo di essere quello che ciascuno può in proporzione dei talenti naturali”, Fanfani, Atti dell’Assemblea Costituente, p. 2369.
(4) Secondo Andrea Fumagalli, in un convegno dedicato a questo tema (Pescara, febbraio 2001), “il concetto di cittadinanza è tutto da ridefinire. Nella nostra epoca postfordista il fatto stesso di esistere significa essere produttivi. Lo siamo infatti tutti come consumatori, dato che veniamo usati come veicoli di informazione, e lo siamo indirettamente perché utili alle scelte del capitale quando guardiamo la televisione e facciamo audience. Ogni atto insomma diventa oggi produzione di ricchezza. Per questo si deve pensare ad una distribuzione sociale del reddito, un reddito minimo dato a tutti a prescindere da qualsiasi soglia di povertà e a prescindere dalla collocazione sociale”.
(5) Il reddito procapite 2000 in Italia era di 20.045 euro, il reddito di esistenza sarebbe quindi di circa 1.000 euro al mese.

BIBLIOGRAFIA

A.A.V.V., 1995, Ai confini dello stato sociale, Manifestolibri
A.A.V.V., 1995, “Basic Income”, in Derive e Approdi, 1995, anno III, numero 7, pp. 36-39.
G. Aznar, 1994, Lavorare meno per lavorare tutti, Bollati Boringhieri
G. Aznar, 1992, Metamorfosi del lavoro, Bollati Boringhieri
A. Gorz, 1998, Miserie del presente, ricchezza del possibile, Manifestolibri
A. Zanini e U. Fadini (a cura di), 2001, Lessico postfordista, Feltrinelli

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