Connessi e felici?

    Esiste un divario profondo tra i paesi tecnologicamente avanzati e quelli in via di sviluppo. Ma forse la tecnologia del nuovo millennio può aiutare a ridurlo, rendendo possibile un accesso universale alla comunicazione. Questa è l’opinione, e la speranza, dei protagonisti dell’economia mondiale. Ed è anche quanto hanno sottoscritto i capi di Stato Thabo Mbeki (Sud Africa) e Kim Dae-Jung (Korea), Sua Altezza l’Aga Khan, le alte cariche di Brasile, Egitto, Ghana, India, Indonesia, Malesia, Marocco, Messico, Russia e Uganda nel corso di un recente simposio organizzato a Washington dalla Banca Mondiale. Ma è proprio vero che saranno le nuove tecnologie a ridistribuire le risorse nel globo e a pareggiare il dislivello tra paesi ricchi e poveri? Per avere un quadro della situazione attuale, Galileo ha intervistato Carlos Braga, direttore del programma infoDev della Banca Mondiale, che racconta la sua esperienza: un quinquennio passato a realizzare progetti ad alta tecnologia nei paesi in via di sviluppo, a connettere le aree più povere del mondo alla rete di informazione globale. E le sorprese non mancano.

    Tra paesi tecnologicamente avanzati e quelli in via di sviluppo esiste un forte divario. Secondo la Banca Mondiale qual è l’effettiva grandezza di questo gap?

    “Il gap di sviluppo è una realtà complessa, che ha molte dimensioni. Facciamo un passo indietro e guardiamo la storia del ‘900: se da un lato la qualità della vita media sul globo è cresciuta significativamente nel corso del secolo, e le percentuali di povertà assoluta sono diminuite costantemente, dall’altro la disparità nel reddito si è via via allargata, non solo da paese a paese ma anche all’interno delle nazioni stesse. In altre parole, la maggior parte degli Stati negli ultimi decenni ha sperimentato una ‘divergenza’ tra le economie: sempre più poveri i poveri, sempre più ricchi i ricchi. Oggi, la rivoluzione informatica aggiunge nuove dimensioni a questo quadro. In primo luogo, si tratta di una rivoluzione tecnologica caratterizzata da una velocità che non ha precedenti nella storia: il World Wide Web, per esempio, ha raggiunto 50 milioni di utenti in soli cinque anni dalla commercializzazione della prima interfaccia web.

    In secondo luogo, le tecnologie informatiche e di comunicazione – che per brevità chiamiamo Ict – stanno fornendo strumenti che pervadono tutte le aree dell’attività economica e sociale. Come nelle altre rivoluzioni di carattere mediatico (stampa, telefono, radio, televisione e via dicendo), l’emergere di una rete digitale globale ha conseguenze che vanno ben al di là della sola economia: non cambia soltanto il modo di lavorare e comunicare, ma anche quello in cui ci si diverte, si sviluppa la conoscenza e ci si impegna in attività culturali. La velocità d’adozione e la penetrazione delle Ict nei paesi in via di sviluppo sono il segnale che la sfida è cominciata. Per esempio: nel 1998 i paesi dell’Oecd hanno speso circa 129 dollari pro capite in infrastrutture per le Ict, gli stati africani subsahariani, invece, solo 9 dollari pro capite. In altre parole, uno “spartiacque digitale” sta allargando il preesistente divario di sviluppo. Nonostante sia difficile fare previsioni in una situazione così complessa e dinamica, è comunque possibile affermare che l’introduzione di nuove tecnologie in società che hanno una distribuzione asimmetrica delle risorse, in genere favorisce le società meglio preparate, quelle cioè con maggiore capitale umano. Per questo motivo il dislivello digitale può favorire, nel medio termine, un ulteriore allargamento del divario tra i redditi. Ed è proprio per combattere scenari di questo tipo che sono importanti le politiche di intervento finalizzate a garantire l’accesso all’informazione ai più poveri.

    Ma in che modo le nuove tecnologie possono aiutare a ridurre il divario esistente?

    Nonostante la rivoluzione dell’informazione, nelle sue fasi iniziali, possa esasperare le disuguaglianze, è anche vero che essa apre nuove possibilità di riguadagnare il terreno perduto, e ad un ritmo molto più veloce che in passato. Basti pensare al rapido calo del costo della connettività, che rende i paesi in via di sviluppo sempre meno schiavi delle loro obsolete reti di telecomunicazione, e sempre più in grado di saltare i passaggi dello sviluppo legato alle nuove tecnologie, come conferma la rapida adozione delle reti digitali da parte di questi paesi. Ma c’è di più: le Ict forniscono modi innovativi per combattere l’emarginazione (connettendo la popolazione a basso reddito), per offrire servizi educativi migliori e per incoraggiare forme di governo più efficaci (potenziando, per esempio, la gestione delle tasse o rendendo trasparenti gli atti delle singole amministrazioni).

    Qual è l’impegno della Banca Mondiale per promuovere la riduzione del gap?

    La Banca Mondiale usa strumenti finanziari per aiutare i suoi clienti a fronteggiare la sfida della rivoluzione dell’informazione. In particolare, il nostro programma infoDev offre contributi a fondo perduto per progetti-pilota che abbiano un carattere innovativo per lo sviluppo delle Ict. Inoltre, cerchiamo di aiutare i governi a creare quadri regolatori adeguati all’era dell’informazione, contribuiamo finanziariamente alla costituzione di centri di assistenza tecnica per l’attuazione delle riforme e delle privatizzazioni e, attraverso l’International Finance Corporation, finanziamo progetti privati ad alto rischio per le economie emergenti. I nostri finanziamenti per le telecomunicazioni si aggirano intorno ai 500 milioni di dollari l’anno (circa mille miliardi di lire), mentre investiamo circa un miliardo di dollari l’anno nelle tecnologie dell’informazione per educazione, sanità e pubblica amministrazione. Siamo inoltre tra i finanziatori delle infrastrutture nazionali per l’informazione nei paesi in via di sviluppo: ciò a cui miriamo è un clima di concorrenza aperto alla privatizzazione, che consenta contemporaneamente alle fasce più povere – ad esempio le popolazioni rurali – di godere dei benefici della connettività.

    Una delle parole-chiave, dunque, è concorrenza. Lei pensa che i paesi in via di sviluppo possano essere soggetti realmente competitivi?

    La concorrenza ha assunto una enorme importanza in tutti i paesi dotati di moderne infrastrutture nazionali di Ict. Questo riflette due aspetti correlati. Sul fronte tecnologico, nella maggior parte dei mercati, le barriere all’ingresso di nuovi soggetti sono crollate rapidamente. Reti cellulari, Internet e tecnologia satellitare hanno aperto le porte a modi innovativi di competizione nel mercato delle telecomunicazioni, proprio nel momento in cui gli utenti di tutto il mondo hanno preso coscienza degli enormi benefici che derivano dall’essere collegati, cosicché la domanda per servizi di alta qualità a basso costo è cresciuta in modo vertiginoso. Contemporaneamente, sul fronte dei regolamenti, le barriere legali all’ingresso di nuovi soggetti sono state gradualmente rimosse, rendendo più facile la concorrenza. E, nel momento in cui l’industria delle telecomunicazioni passa dal monopolio a un clima di concorrenza, si moltiplicano le probabilità che le infrastrutture della comunicazione e dell’informazione diventino una importante leva per la crescita economica. Questi aspetti hanno una particolare rilevanza per i paesi in via di sviluppo, non solo in una prospettiva di concorrenza, ma anche in termini di reale impatto delle infrastrutture: governi più trasparenti, migliore qualità della vita e politiche ambientali corrette. In altre parole: la questione fondamentale non è se la concorrenza, all’interno delle economie emergenti, possa rendere tali paesi competitivi a livello internazionale. La domanda che noi ci poniamo invece è: come e quanto le nuove tecnologie possono favorire i mercati, i governi e una crescita sostenibile per i paesi in via di sviluppo?

    Il programma infoDev, dunque, nasce per trovare queste risposte?

    Abbiamo creato infoDev nel 1995 per sostenere finanziariamente progetti-pilota per l’informazione e la comunicazione nei paesi in via di sviluppo e per promuovere il dibattito sui rischi e i benefici della rivoluzione dell’informazione. La storia di infoDev riflette il bisogno di realizzare, con uno strumento di prestiti flessibili, piccoli progetti dimostrativi per spianare la strada a interventi su grande scala, diminuendo così i rischi legati ai rapidi e continui cambiamenti di questo settore, all’alto grado di incertezza proprio delle discontinuità tecnologiche e ai fallimenti del mercato capitalista nelle economie emergenti. In secondo luogo, infoDev vuole mettere in evidenza l’importanza della partecipazione del settore privato nell’attivazione di risorse e conoscenza. Oggi, con più di 200 contributi elargiti, infoDev è riconosciuto come uno dei protagonisti più innovativi dello sviluppo delle Ict.

    Ma quali sono i benefici che le regioni rurali possono avere dalle nuove tecnologie quando, per esempio, non hanno un accesso diretto all’acqua?

    Nel momento in cui i costi delle nuove tecnologie continuano a diminuire e vengono usati meccanismi innovativi per introdurre servizi di telecomunicazione, le opportunità che derivano alle regioni più povere e più remote dall’essere finalmente collegate al resto del mondo crescono in modo esponenziale. Il punto non è scegliere se investire nei bisogni basilari (educazione, sanità) o nelle tecnologie moderne. E’ invece importare esplorare le possibilità esistenti e capire come le Ict possano aiutare a indirizzare meglio i programmi per la soluzione dei problemi di base. Ci sono molti esempi di usi innovativi della tecnologia nei paesi in via di sviluppo che illustrano le vie per colmare il gap. E’ chiaro che i nostri sono solo progetti-pilota, nei quali le Ict sono utilizzate per sviluppare educazione e sanità o per promuovere una migliore gestione delle risorse naturali.

    Molte esperienze sono riportate sul nostro sito (http://www.infodev.org) dove è possibile vedere come le Ict abbiano permesso di connettere le aree povere e rurali di paesi come il Perù e il Kenya, di supportare l’alfabetizzazione informatica dei bambini in Giamaica o in Colombia e delle donne in India; di promuovere gestioni corrette delle risorse naturali in Centro America e migliori forme di governo nelle regioni dell’Africa sub-sahariana. E ancora: l’adozione di software didattico innovativo in Colombia, quella di strumenti pedagogici via Internet in Sud Africa, l’uso di satelliti per l’introduzione di servizi didattici e sanitari in Africa, l’uso del web per la condivisione dei dati sull’ambiente tra il Messico e l’America Centrale, la gestione locale delle Ict nelle scuole giamaicane e nei punti di informazione in Africa, la gestione dei database sanitari in Asia. Tutti progetti che hanno avuto, comunque, un carattere principalmente dimostrativo, e da cui non ci si può aspettare che colmino da soli il gap esistente. La misura del nostro successo sta invece nella portata delle lezioni che noi stessi abbiamo imparato, e nella capacità che dimostreremo nel riprenderle e utilizzarle all’interno comunità internazionale per lo sviluppo.

    Cosa pensa delle critiche alla globalizzazione emerse nel recente meeting del Wto a Seattle?

    In quella occasione, interessi disparati si sono uniti nella protesta contro i pericoli che si percepiscono quando si parla di globalizzazione, e il Wto è stato scelto come simbolo di riferimento. Aspetti diversi si sono scontrati in maniera esplosiva: fraintendimento della missione del Wto, uso opportunistico dell’evento per influenzare l’agenda e proteggere interessi acquisiti, preoccupazione sulla trasparenza dei negoziati multilaterali, conseguenze ambientali dell’espansione economica. Ritengo che molte di queste paure siano legittime, ma credo anche che la protesta sia stata generata da una percezione sbagliata del ruolo del Wto in questo contesto. La globalizzazione andrà avanti – guidata dallo sviluppo tecnologico – indipendentemente dal ruolo del Wto. Il quale però ha una funzione fondamentale, perché può fornire il migliore antidoto contro pratiche di discriminazione nell’”arena” dell’economia e del commercio. Resta il fatto che i timori legati alla globalizzazione devono comunque essere esplicitati, affinché si possa costruire un maggiore consenso su come procedere politicamente. Anche a questo proposito le nuove tecnologie possono giocare un ruolo decisivo, dando voce agli emarginati, fornendo un’informazione diffusa sulla posta in gioco e promuovedo un migliore governo delle risorse globali.

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