Categorie: Vita

Cosa sappiamo oggi del linguaggio?

Si apre oggi nella capitale il Festival delle scienze di Roma, la manifestazione che per quattro giorni all’Auditorium Parco della Musica terrà impegnati scienziati, giornalisti e semplici curiosi a discutere di una delle più affascinanti e uniche caratteristiche della specie umana: il linguaggio. Tanti gli interventi in programma (qui il calendario della manifestazione), a partire dall’incontro di oggi alle 18 con Luigi Rizzi dell’Università di Siena, Philippe Shenkler dell’Istituto Jean-Nicod di Parigi, e Andrea Moro della Scuola Superiore Universitaria Iuss di Pavia, impegnati a illustrare lo studio scientifico del linguaggio. Ma cos’è un linguaggio, e cosa significa impararlo? Lo abbiamo chiesto direttamente a Moro, che a Wired spiega come conoscere una lingua non sia poi così diverso dal possedere una capacità di calcolo infinita. Ecco perché.

Andrea Moro, che cosa significa sapere una lingua?

“Sapere una lingua, in prima approssimazione, significa essere in grado di comprendere e produrre sequenze di parole mai sentite o prodotte prima, oltre a molte già sentite e prodotte, a partire da un insieme di parole. Per capire meglio, possiamo fare un paragone con l’aritmetica: cosa significa conoscere l’aritmetica? Non certo avere in mente una lista di somme, sottrazioni, divisioni e moltiplicazioni. Significa invece avere un dizionario di cifre (nel nostro caso 10) e delle regole di combinazione. Il nostro cervello non ha limiti, se non quelli di memoria. È facile rendersi conto che come non esiste il numero più lungo non esiste nemmeno la frase più lunga. Sapere una lingua dunque significa avere dentro di noi questa capacità ‘generativa’. Ovviamente, questo è solo il punto di partenza. Poi ogni lingua ha le sue caratteristiche, le sue sfumature poetiche, la sua storia: ma alla base sta questa capacità di computazione infinita”.

Come si apprende un linguaggio?

“Fino alla pubertà – con un salto molto netto verso i sei anni – una lingua si apprende per ‘contagio’: basta essere esposti, comunicare, avere la situazione emotiva e motivazionale giusta e la lingua si apprende automaticamente. Dopo questa età invece dobbiamo ricorrere a metodi completamente diversi: esercizio mnemonico, ripetizioni, studio esplicito, insomma tutto quello che un adulto fa per apprendere una lingua straniera. È molto difficile però che si possa arrivare ad apprenderla come se fossimo bambini. L’accento, ad esempio, rimane sempre irraggiungibile, salvo rarissimi casi”.

Perché il linguaggio è una caratteristica così peculiare della specie umana?

“Tutti gli animali comunicano, tantissimi usano anche simboli: come ad esempio un gatto che marca il suo territorio con l’odore della sua urina. Solo gli esseri umani tuttavia possiedono la capacità di generare significati dalla composizione diversa dei simboli. Se a un essere umano che parla italiano diamo tre parole come CAINO, ABELE e UCCISE sappiamo subito che possiamo generare due frasi di significato praticamente opposto: CAINO UCCISE ABELE e ABELE UCCISE CAINO. Nessun altro essere è in grado di fare questo: nemmeno gli scimpanzé, come fu provato in un esperimento molto famoso degli anni settanta condotto alla Columbia University di New York”.

Cosa sappiamo sul meccanismo che permette al cervello di imparare una lingua?

“Quasi niente, ma quasi: nel senso che negli ultimi quindici anni l’esperienza accumulata dai linguisti a partire dai lavori di Noam Chomsky degli anni Cinquanta, si è riversata sulle neuroscienze ed ha dato risultati impensabili nel Novecento. Ad esempio, oggi sappiamo almeno due cose: che la capacità di comporre tra loro le parole (la sintassi, tecnicamente parlando) attiva una rete dedicata nel cervello, non è dunque un artificio descrittivo vecchio di duemila e cinquecento anni. Sappiamo anche un’altra cosa molto importante che rende conto di una scoperta della linguistica moderna. Se osserviamo tutte le lingue del mondo, vediamo che alcuni tipi di regole, anche facili, non si realizzano mai. Ad esempio, in nessun lingua ci sono regole che invertono l’ordine di tutte le parole di una frase. L’assenza di queste regole veniva imputata a fatti culturali, arbitrari e convenzionali. Con l’utilizzo di tecniche di neuroimmagini si è invece visto che le regole che non si trovano mai – potremmo chiamarle per comodità ‘regole impossibili’ – non attivano la rete cerebrale dedicata alla sintassi. Questo risultato ci porta a escludere che si tratti di un fatto culturale, arbitrario e convenzionale perché noi non abbiamo nessun controllo volontario della circolazione del sangue nel nostro cervello. Naturalmente si tratta di pochissimo: ma da qui si può partire verso la comprensione profonda di questo legame, formulano ipotesi nuove e affascinanti”.

Al mondo esistono tante culture ed altrettante lingue. Ci sono dei meccanismi condivisi tra i diversi linguaggi e alcuni invece particolari?

“Praticamente tutti i linguaggi sono lo stesso linguaggio dal punto di vista delle regole. La differenza sta ovviamente nel dizionario (suoni, significati, ecc). È però importante notare che questo sistema invariante ammette alcuni minimi gradi di libertà. Essendo molto complesso, basta una variazione microscopica per dare effetti macroscopici enormi: anche per questo ci sono voluti duemila anni per scoprire queste leggi di invarianza. Il cammino è tutt’altro che concluso: ci sono moltissimi aspetti da chiarire, ma l’idea di un sistema invariante con gradi di libertà rappresenta oggi un riferimento imprescindibile”.

Via: Wired.it

Credits immagine: Shawn Econo/Flickr

Anna Lisa Bonfranceschi

Giornalista scientifica, a Galileo Giornale di Scienza dal 2010. È laureata in Biologia Molecolare e Cellulare e oggi collabora principalmente con Wired e La Repubblica.

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  • IL LINGUAGGIO E LA MANO
    Non sarebbe niente male una riletturina di "Dialettica della Natura" di Engels , magari con in più i lavori dell'antropologo francese Leroy-Gourhan, a partire da "Il gesto e la parola".
    marcello

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