Categorie: Salute

Cosa succede se l’urologo è donna

L’aumento sempre più consistente delle laureate in medicina, un trend che non accenna a fermarsi, sta cambiando anche la composizione di genere nelle diverse specializzazioni. Anche quella in Urologia, considerata una “ riserva indiana” per le donne, alla pari di tutte le discipline a forte impatto chirurgico, ha subito negli ultimi anni una consistente colonizzazione da parte del genere femminile.

All’inizio degli anni Settanta, le urologhe si contavano sulle dita di una mano. Oggi sono iscritte alla SIU (Società Italiana di Urologia) oltre 200 donne, ma se consideriamo tutto l’ambito nazionale e anche le specialiste in formazione i numeri raddoppiano. Oggi oltre il 10% dell’intera popolazione di specialisti in questa disciplina è donna, mentre secondo i dati della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici (FNOMCEO) nel 2003 la percentuale si attestava intorno al 4%.

In particolare, solo 10 anni fa il panorama era caratterizzato da poche decine di specialiste concentrate nei grossi centri universitari e in quei settori che venivano considerati come più adatti al gentil sesso (urologia pediatrica, funzionale e uroginecologia). Attualmente le donne urologhe sono attive in ogni disciplina urologica, anche le più innovative, come la chirurgia robotica e i trapianti. Ma la conciliazione tra lavoro e cure parentali rimane tuttora difficile e la segregazione verticale nelle carriere, così come la valorizzazione in campo scientifico e accademico, rimangono nodi irrisolti.

Un questionario elaborato dal CIFU (il Comitato Italiano Femminile di Urologia, istituito nell’ambito della SIU) nel 2010 ha fotografato la condizione delle urologhe italiane. Il 58% di coloro che ha risposto non ha figli e tra quelle che li hanno oltre il 37% è tornata a lavorare a tempo pieno tra il terzo e il sesto mese dopo il parto, mentre il 29% lo ha fatto ancora prima, entro le prime 12 settimane.
L’uroginecologia, l’oncologia e la endourologia sono i campi di interesse più rappresentati. Quasi il 60% delle urologhe non svolge in sala operatoria un ruolo prevalente di primo operatore. Tra le strutturate a tempo indeterminato predomina il ruolo di Dirigente medico di primo livello e di medico specialista convenzionato sul territorio, pochissime sono le responsabili di Strutture Complesse. L’attività di ricerca è scarsamente rappresentata. In ambito universitario si contano solo due professoresse di seconda fascia e due ricercatrici. L’80% del campione ammette di non riuscire a conciliare gli impegni di lavoro con quelli familiari e l’82% pensa che la famiglia, con i suoi carichi di lavoro e responsabilità, abbia condizionato negativamente la propria carriera. Eppure, nel 79% dei casi, se tornassero indietro queste donne sceglierebbero ancora l’urologia come disciplina per la propria specializzazione. Emerge quindi un quadro di grande determinazione e sacrificio professionale che spesso però non viene premiato.

Un’altra iniziativa più recente del CIFU è stata quella proporre la validazione in lingua italiana del Female Sexual Function Index (FSFI), un questionario sulla sessualità femminile e sulle sue disfunzioni largamente utilizzato nei paesi di lingua anglosassone e già utilizzato in Italia in molti studi in una versione tradotta non validata. A questo scopo sono state arruolate oltre 400 donne su tutto il territorio italiano coinvolgendo 14 centri clinici.

In futuro il CIFU vuole istituire un un osservatorio sui percorsi formativi e di lavoro dopo la specializzazione in urologia nella consapevolezza che esistono differenze generazionali che hanno un forte impatto sulla carriera, anche in relazione al genere, sulle opportunità formative, anche all’estero, e sugli sbocchi professionali.
Infine, in occasione dell’ultimo congresso nazionale 2012 della SIU, è stato lanciato dal CIFU il progetto: “Neoplasie renali e stili di vita: Studio prospettico multicentrico”, uno studio che coinvolgerà diversi centri in Italia e che indagherà per la prima volta la correlazione fra stili di vita e insorgenza del tumore al rene in un ottica di genere.

Articolo pubblicato in collaborazione con Ingenere e Associazione Donne e Scienza

 

Donata Villari

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