Cuori di donna

Subdola e sottostimata, ma altamente rischiosa. È la malattia cardiovascolare nelle donne. Nel mondo occidentale, uccide tre volte di più di quanto facciano complessivamente tutti i tipi di tumore e otto volte di più del cancro alla mammella. Con le stesse, allarmanti cifre con cui colpisce la popolazione maschile, si attesta come la prima causa di morte per le donne di età compresa fra i 44 e i 59 anni. Per anni, tuttavia, prima che i dati epidemiologici rendessero evidente la gravità del problema al femminile, infarto e ischemia coronarica sono stati considerati problemi specifici dell’uomo. Oggi la medicina sta recuperando il terreno perduto e la ricerca clinica sulle differenze di genere nelle malattia cardiocircolatorie sta cercando di colmare i buchi di anni di trial clinici tutti al maschile.

A conferma, sono appena apparsi sulla rivista Circulation, il giornale della American Heart Association, diversi articoli dedicati alle malattie coronariche e alle donne, all’approccio dei medici e alle peculiarità delle pazienti.Da un lato, i medici. Secondo Lori Mosca, direttore di cardiologia preventiva al New York Presbyterian Hospital e professore associato di medicina alla Columbia University i medici tendono a indirizzare in misura minore le donne verso terapie preventive, come farmaci anticolesterolo, aspirina e riabilitazione cardiaca. La percezione del rischio di un attacco cardiaco nella donne sarebbe inferiore al reale rischio che questo si verifichi. È il risultato di un’inchiesta on-line, che ha coinvolto 500 dottori, selezionati in modo casuale nella classe medica nazionale a cui è stato chiesto di esprimere quali raccomandazioni sullo stile di vita e sul trattamento preventivo farmacologico avrebbero indicato a precisi profili di pazienti, uomini e donne, con lo stesso livello di rischio cardiaco. Le donne risultavano in maniera significativa classificate come meno a rischio degli uomini, anche quando i due profili di rischio erano identici.Ancora. In America su circa un milione di pazienti che ogni anno si sottopongono a un intervento coronarico di angioplastica (per esempio, stent e palloncini usati per riaprire i vasi occlusi), solo nel 35 per cento dei casi si tratta di donne.

Arriva di risposta la raccomandazione dell’American Heart Association che esorta i medici a consigliare per tempo gli interventi di angioplastica nelle donne, perché si potrebbero prevenire ogni anno molti decessi. Anche test diagnostici, come l’imaging cardiaco, sono meno utilizzati quando la paziente è donna, nonostante la loro efficacia sia ugualmente provata in ambo i sessi.Da un lato i medici, dunque. Dall’altro le pazienti donne con caratteristiche tutte loro, emerse in modo distinto solo da qualche anno e che richiedono un’attenzione nuova e diversa. “L’età più a rischio cardiovascolare per la donna è superiore di 8-10 anni rispetto all’uomo. Quando con la menopausa crollano i livelli di estrogeni, la donna risulta più esposta alla malattia e più suscettibile a fattori di rischio come il diabete, l’ipercolesterolemia, l’ipertensione, l’obesità” afferma Maria Grazia Modena, primario di cardiologia al Policlinico di Modena ed esperta nel campo delle malattie cardiovascolari nelle donne. Anche i sintomi sono differenti: rispetto al comune dolore toracico e al senso di costrizione lamentato dagli uomini, nelle donne i sintomi possono essere più silenziosi.

Questo comporta che le donne stesse sottovalutino il rischio incipiente e si rechino in ospedale da 30 a 60 minuti più tardi di quanto farebbe un uomo, peggiorando la situazione. “Rispetto al passato sono stati fatti molti passi in avanti, soprattutto sul fronte terapeutico”, continua Modena. “Mentre qualche anno fa farmaci non adeguatamente dosati sulla superficie corporea femminile, o interventi di angioplastica non testati sui vasi femminili, che sono più piccoli, davano numerose complicanze e più alti tassi di insuccesso, oggi sono disponibili trattamenti ben calibrati anche per il modello femminile”. Si tratta perciò di non prendere sottogamba il problema, perché, conclude, “è vero che c’è ancora un’insensibilità verso il problema da parte della classe medica e ancora poca informazione da parte delle pazienti”.

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