Deepwater Horizon: misurato l’inquinamento aereo

Uno studio condotto sui cieli del Golfo del Messico a giugno, mentre il petrolio fuoriusciva dalla piattaforma Deepwater Horizon al ritmo di circa 68.000 barili al giorno, ha dimostrato per la prima volta l’esistenza di un nuovo meccanismo nella formazione dell’inquinamento atmosferico da aerosol. E ha indicato che i principali responsabili in corrispondenza della piattaforma sono gli idrocarburi volatili pesanti (che impiegano molto tempo ad evaporare), non quelli leggeri che evaporano in poche ore, come finora si pensava. 

La ricerca, svolta da un team della National Oceanic and Atmospheric Adimistration (NOAA), è stata pubblicata sull’ultimo numero di Science. All’indomani dell’esplosione della piattaforma di proprietà della British Petroleoum, scienziati provenienti da tutto il mondo si sono precipitati sul luogo del disastro per misurarne la portata (vedi Galileo). La NOAA ha inviato il velivolo Lockheed WP-3D Orion, meglio conosciuto come Hurricane Hunter (Cacciatore di Uragani), allo scopo di valutare i livelli di inquinamento dell’aria. L’aereo era equipaggiato per misurare diversi tipi di particelle inquinanti (tra cui il cosiddetto aerosol organico) e le sostanze chimiche che le compongono.

Lo studio, condotto da Joost de Gouw, che si occupa di scienze dell’atmosfera alla Chemical Sciences Division della NOAA, si è focalizzato su un aspetto particolare: la formazione, nello spazio aereo della Deepwater Horizon, di larghe concentrazioni di aerosol organico secondario (SOA), formatosi dall’evaporazione delle componenti volatili del petrolio disperso in mare. “L’aerosol organico (OA) rappresenta circa la metà delle particelle inquinanti che si trovano nei cieli delle nostre città”, ha spiegato de Gouw. “E nell’atmosfera inquinata la frazione dominante di OA è di natura secondaria”.

Sfruttando le particolari condizioni generate dall’esplosione della Deepwater, i ricercatori sono riusciti per la prima volta a dimostrare il ruolo dei composti volatili più pesanti del petrolio nella formazione dell’aerosol organico. Questo fenomeno era già stato ipotizzato quattro anni fa da ricercatori della Carnegie Mellon University di Pittsburgh, ma la sua osservazione empirica era ritenuta pressoché impossibile. “Il problema è che, in circostanze normali, i composti leggeri e quelli più pesanti vengono emessi allo stesso tempo dalle medesime fonti, per cui è praticamente impossibile studiarli separatamente nell’atmosfera”, ha aggiunto de Gouw.

Il disastro della Deepwater ha creato uno scenario al tempo stesso drammatico e unico. Non ci sono misurazioni precise, ancora, ma i dati rilevati da WP-3D Orion hanno mostrato chiaramente un’elevata concentrazione di composti volatili organici leggeri nelle immediate vicinanze del punto di fuoriuscita, mentre l’aerosol organico aveva una distribuzione più dispersa, corrispondente alle zone in cui vi era petrolio “invecchiato” in mare. Secondo gli autori, l’unica spiegazione possibile era assumere un forte coinvolgimento delle componenti pesanti del petrolio nella creazione di SOA: impiegando più tempo a evaporare, infatti, queste componenti si diffondono nell’aria solo dopo essersi disperse in mare.

De Gouw e colleghi hanno dunque realizzato una serie di modelli per stimare il percorso del greggio fuoriuscito nel Golfo e predire in quanto tempo le sue componenti pesanti, medie e leggere sarebbero evaporate. “Nella maggior parte dei programmi di monitoraggio della qualità dell’aria i composti volatili pesanti non vengono misurati”, hanno spiegato i ricercatori. “Questo perché si è sempre pensato che l’inquinamento atmosferico fosse provocato in massima parte dai composti volatili leggeri. Il nostro studio, invece, ha messo in luce il peso dell’altra faccia del problema”. Secondo gli scienziati del NOAA, si tratta di una scoperta fondamentale sia per la comprensione della qualità dell’aria che respiriamo, sia per la messa a punto di eventuali interventi: a emettere composti pesanti, infatti, sono anche le autovetture e altre fonti di combustione.

Riferimento: DOI: 10.1126/science.1203019

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