Del Dna non si butta via niente

Molto di quello che sappiamo sulla genetica dei mammiferi potrebbe essere da rivedere. Tre studi pubblicati questa settimana su Nature Genetics mettono infatti alla prova le nostre conoscenze su come i geni sono controllati e tradotti in proteine. E confermano che quella parte di Dna che sembra non codificare nessuna proteina, chiamato perciò “Dna spazzatura”, è tutt’altro che inutile (vedi Galileo). Principali autori dei tre articoli sono Yoshihide Hayashizaki, John Mattick, e Piero Carninci, leader di altrettanti gruppi che partecipano al Progetto Fantom, la più grande collaborazione per lo studio del genoma dei mammiferi.

I ricercatori hanno utilizzato nuove tecniche di sequenziamento per osservare come varia l’espressione dei geni (cioè la loro trascrizione in Rna e la “traduzione” di parte di questo in proteine) durante lo sviluppo e la differenziazione delle cellule. Sono stati scoperti più di 250.000 nuovi “siti cap”, sequenze che si trovano all’inizio dei geni e che danno il via alla trascrizione, ed è emerso che tra il 10 e il 30 per cento degli Rna espressi in una cellula derivano dal cosiddetto Dna spazzatura e sembrano svolgere molteplici funzioni estremamente importanti. “Il genoma è costituito per il 45 per cento da elementi all’apparenza inutili, che si ripetono all’interno del genoma, considerati pesi morti o perfino parassiti”, spiega Piero Carninci del Riken Omics Science Center di Yokohama (Giappone) a Galileo. Questi “elementi ripetuti” sono rappresentati per la maggior parte da trasposoni, “pezzi” di Dna che, come suggerisce il nome, si traspongono, cioè si muovono e si integrano in altre parti del genoma. Motivo per cui sono considerati molto pericolosi, dal momento che posso inserirsi in un gene buono, inattivarlo e causare malattie genetiche. Finora si riteneva, quindi, che i trasposoni fossero nella maggior parte inattivi e strettamente controllati e repressi dalla cellula.

La scoperta del gruppo di Carninci, condotta insieme a Valerio Orlando del Dulbecco Telethon Institute di Roma e Napoli e all’Universita di Queensland (Australia), mostra invece che questi elementi non sono affatto inerti e che la cellula potrebbe aver imparato a vivere in simbiosi con essi, fino ad usarli per autoregolarsi (omeostasi cellulare). Come? “Abbiamo scoperto che i trasposoni fanno diverse cose”, precisa Carninci: “Prima di tutto producono 200.000 tipi di Rna diversi, e alcune loro sequenze possono essere “prestate” ad altre parti del genoma per  innescare la trascrizione di forme alternative di mRna (microRna) che poi producono proteine. Inoltre sono associati a regioni importanti per la regolazione dell’espressione dei geni e hanno vari effetti sulla loro trascrizione. Tra le varie funzioni, per esempio, i trasposoni reprimono l’espressione di mRNA se questi contengono sequenze simili alle loro”.

Gli studiosi hanno anche scoperto una nuova classe di Rna corti, formati da 18 lettere (nucleotidi) soltanto, la cui sequenza è uguale a quella che dà il via alla trascrizione dei geni. Al momento si pensa che questi siano importanti per la regolazione dell’espressione genica, anche se non si conosce ancora il meccanismo con cui agirebbero.

Questi risultati sono stati ottenuti grazie a una particolare tecnica di sequenziamento, detta Cage (cap-analysis gene expression), messa a punto dallo stesso Piero Carninci, che non solo identifica l’espressione dei geni, ma individua anche la parte iniziale (il “sito cap”) del Rna corrispondente. La tecnica permette cioè di trovare il punto in cui comincia la trascrizione del gene, perché identifica la particolare sequenza del genoma che “causa” l’espressione degli Rna. “Cage ci dà l’espressione e contemporaneamente la mappa dei promotori di tutti i geni (espressi e non) in una certa cellula ed è, quindi un’analisi globale”, racconta il ricercatore: “Inoltre, la tecnica permette anche di contare quante volte una sequenza di Rna è espressa all’interno di una particolare cellula. Se una sequenza di un “Rna-cap” compare 10.000 volte, significa che il gene corrispondente è molto espresso. Nel caso di geni meno espressi, ci saranno centinaia o decine di sequenze. Per tutti i geni di cui non si trova alcuna sequenza Rna, si assume che non siano espressi”.

La tecnica Cage è stata applicata a cellule staminali indotte a differenziare in globuli bianchi: i ricercatori hanno monitorato i cambiamenti a vari intervalli di tempo dopo l’inizio della differenziazione, mappando tutti gli Rna espressi e tutti i siti promotori. Infine, mediante analisi di bio-informatica, hanno identificato le proteine che legano gli Rna espressi ai siti promotori dei geni, inducendo la trascrizione. “Tutto questo ci ha portato a decifrare il network tra i controllori (i fattori di trascrizione, ndr.) e tutti i geni che vengono coinvolti durante le varie fasi della differenziazione di una cellula”, spiega ancora Carninci: “L’altissima risoluzione di Cage e gli algoritmi che abbiamo sviluppato hanno permesso un’analisi mai eseguita in precedenza che potrà trovare una futura applicazione nella medicina rigenerativa e nel controllo del differenziamento cellulare”.

Riferimenti:Nature Genetics: DOI: 10.1038/ng.375; DOI: 10.1038/ng.312; DOI: 10.1038/ng.368

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