Mgf, una battaglia su più fronti

    Più di 1000. E’ il numero delle bambine e delle adolescenti immigrate da paesi africani che potrebbero subire mutilazioni genitali in Italia. Mentre circa 35 mila donne immigrate sono state già vittime di questa pratica prima di venire nel nostro paese o una volta giunte qui. La denuncia arriva da uno studio del Ministero delle Pari Opportunità presentato nel corso della tavola rotonda organizzata dall’associazione radicale Non c’è pace senza giustizia, coordinata dal vice presidente del Senato Emma Bonino, che ha chiesto all’Onu una risoluzione entro l’anno sulla messa al bando dell’infibulazione.

    In Italia la maggior parte delle mutilazioni avviene in quattro regioni: in Lombardia con quasi 40 mila bambine mutilate (35 per cento), Veneto (14 per cento), Emilia Romagna con il 13 per cento (più di 14 mila bambine mutilate) e Lazio con il 10 per cento (oltre 11 mila). A seguire, si registrano l’8 per cento del Piemonte e il 5 della Toscana. La pratica delle mutilazioni, infatti, che fino pochi decenni fa aveva per l’Occidente un interesse esclusivamente “antropologico”, con l’immigrazione è arrivata a coinvolgere direttamente le strutture sanitarie e l’ordinamento giuridico dei paesi europei (Dalla parte di Eva).

    Il problema, quindi, va affrontato a vari livelli. Bisogna innanzitutto avviare un nuovo processo culturale, una ‘educazione al cambiamento’, come l’ha definita Elisabetta Belloni direttore generale Cooperazione allo sviluppo del Ministero degli Esteri, che ha dichiarato: “C’è un problema sanitario immediato, ma anche le conseguenze sono drammatiche. E’ un dovere morale far sì che quelle donne che hanno subito le violazioni possano riconquistare uno standard di vita più accettabile”. Una delle strade consiste per esempio nella deinfibulazione, cioè nella riapertura della ferita e la ricostruzione dei tessuti mutilati, intervento da condurre ovviamente nelle strutture sanitarie in grado di praticarlo. “Sono moltissimi gli interventi di deinfibulazione, che spesso hanno successo, a cui si sottopongono ragazze e donne”, commenta infatti Lucrezia Catania, ginecologa all’Ospedale Careggi di Firenze.

    Di passi avanti se ne stanno facendo. Lo scorso 25 settembre, per esempio, a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il ministro degli Esteri Franco Frattini ha organizzato una riunione ministeriale alla quale hanno preso parte anche 15 paesi africani, per avviare il lavoro sulla messa al bando. Obiettivo: far sì che il 2010 sia l’anno di snodo della situazione internazionale.

    Ma la politica è solo uno dei tasselli necessari per avviare un cambiamento. La lotta all’infibulazione, infatti, deve partire nei paesi dove la pratica è più frequente, con il coinvolgimento e la sensibilizzazione di istituzioni, leader governativi e sociali (Questione di cultura). Secondo i dati dell’Oms, nel mondo tra 100 e i 140 milioni di bambine, ragazze e donne hanno subito mutilazioni genitali. Il triste primato spetta all’Africa con 91,5 milioni di vittime a cui, ogni anno, se ne aggiungono altri tre (La storia di Waris; I confini dell’illecito; Barbarie senza confini).

    Nel corso degli anni diverse associazioni ed enti istituzionali si sono impegnati in progetti per favorire l’eradicazione della pratica (Fermiamo la mutilazione genitale) o per evitare e arginare gli effetti irreversibili di una tradizione così invasiva (Non esiste una soluzione soft). La stessa associazione “Non c’è pace senza giustizia” ha lanciato una campagna nel 2001 (Stop alle mutilazioni genitali; Continua la lotta all’infibulazione), e ora nel corso della tavola rotonda ha presentato un progetto che mira a favorire l’adozione e l’attuazione, nei paesi dell’Africa occidentale, di leggi efficaci per la messa al bando delle Mgf, che devono essere trattate esplicitamente come una violazione dei diritti umani e che come tale devono essere affrontate.

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