Embarghi, le violazioni finiscono in borsa

Quando il 22 febbraio del 2002 Jonas Savimbi, leader carismatico delle truppe ribelli dell’Angola, venne ucciso in combattimento dalle truppe governative, a Luanda, capitale dello stato africano, la gente festeggiò per le strade. Il corpo crivellato di colpi di Savimbi rappresentava per tutti una sola cosa: che, dopo 25 anni di ininterrotta guerra civile e oltre un milione e mezzo di morti, presto sarebbe arrivata la pace. E, insieme a questa, anche lo stop dell’embargo su pistole, fucili, petrolio e diamanti disposto dall’Onu contro Savimbi e il suo movimento, l’Unita.

Ci fu chi, però, non fu lieto per la tregua imminente. Diverse società di armi del Belgio quotate in Borsa, per esempio, alla notizia della morte del “Leone” d’Angola videro le loro azioni perdere valore. Eppure la fine dell’embargo avrebbe significato la libertà di vendere e, dunque, la prospettiva di affari futuri. Perché, allora, questo andamento contraddittorio del mercato? Perché con buona probabilità quelle società, malgrado il divieto dell’Onu, commerciavano già da tempo con Savimbi. E la fine della guerra avrebbe posto termine anche ai loro business illeciti.

A cercare di fare luce sul fenomeno complesso (e frequente) delle violazioni dell’embargo sull’importazione degli armamenti è, oggi, un interessante saggio di Eliana La Ferrara, dell’Università Bocconi, e Stefano Della Villa, dell’Università di Berkeley. Il punto di vista scelto dai due ricercatori per identificare questi traffici è proprio la dinamica dei titoli azionari delle società di armi. L’approccio di partenza: l’annuncio di eventi inaspettati e potenzialmente influenti sugli esiti di una guerra in un paese sotto embargo ha ripercussioni diverse sulle compagnie quotate a seconda che queste rispettino o no le disposizioni internazionali. Gli investitori, infatti, conoscono bene chi commercia rispettando la legge e chi, al contrario, la viola. E acquistano e vendono azioni di conseguenza, mutandone il valore a seconda delle previsioni sull’evoluzione del conflitto.

“Abbiamo cercato di applicare le stesse tecniche utilizzate in economia nell’analisi dei comportamenti finanziari in risposta agli annunci che riguardano le imprese”, dice La Ferrara a Galileo: “L’approccio adottato è il medesimo: solo applicato alle notizie sui paesi sotto embargo in relazione all’andamento delle società che commerciano armi”.

Il non rispetto delle disposizioni dell’Onu viene ritenuto uno dei principali problemi che ostacolano i progetti di sviluppo in territori già segnati dal dramma della guerra. “Teoricamente la notizia di un accadimento che inasprisce le lotte e provoca un prolungamento dell’embargo dovrebbe comportare una flessione delle azioni per le compagnie che vendono armi, perché posticipa in un futuro incerto il momento in cui i commerci potranno riprendere”, continua La Ferrara: “E’ lecito supporre, però, che se questo annuncio si traduce per una società in un rialzo del suo valore, forse è la spia del fatto che l’embargo non viene rispettato. Anzi, il continuare della guerra si traduce per quell’impresa in un aumento del suo giro d’affari”.

Lo studio rifiuta, però, ogni pretesa di scientificità. “Abbiamo elaborato, più che altro, una metodologia che vuole essere usata solo a livello di policy come un primo screening cui fare riferimento quando si deve investigare su fenomeni del genere”, sostiene La Ferrara. “Il nostro vuole essere solo uno strumento che può integrare la raccolta delle segnalazioni in inchieste che difficilmente vedono carichi di merci illegali intercettati dalle forze dell’ordine. Anche perché le aziende che hanno le maggiori attività di questo tipo non sono quotate”.

Ciò non toglie, tuttavia, che la teoria abbia trovato forti elementi di riscontro anche nei risultati dei monitoraggi effettuati dai vari Comitati delle sanzioni istituiti dalle Nazioni Unite. Altra conferma, ancora, è arrivata indirettamente dall’analisi dei paesi di appartenenza delle imprese. Negli stati caratterizzati da un elevato livello di corruzione o da un quadro legislativo che permette facilmente l’aggiramento dei controlli, i valori delle azioni delle società che commerciano armi tendono a salire in conseguenza della recrudescenza di eventi bellicosi in territori sotto embargo, secondo un andamento in linea con le conclusioni dello studio (a essere interessate non sono solo aree emergenti come Cina o Corea del Sud, ma anche paesi dell’area Ocse come Italia, Giappone, Spagna, Belgio e Svizzera).

Ma, in generale, in cosa si traduce tutto questo in termini economici? E’ stato stimato che ogni violazione di un embargo frutta profitti intorno ai due milioni di dollari. “Si tratta di una media, ovviamente, di una “calibration” basata sulle dimensioni della domanda di armi”, conclude La Ferrara: “Sono cifre di non poco conto se riferite generalmente ad aziende di piccole dimensioni. In termini percentuali, invece, abbiamo stimato un rialzo azionario dello 0,7 per cento”.

Lo studio di La Ferrara e Della Vigna – che potrebbe essere letto con lo stesso interesse di una spy-story di Le Carrè o Forsyth – non è, infine, una metodologia particolarmente costosa da applicare. Tutt’altro. Se, infatti, i listini di Borsa si scaricano facilmente da qualunque database finanziario, l’investimento maggiore è rappresentato unicamente dal tempo da dedicare alla raccolta delle informazioni sull’evoluzione dei conflitti.

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