Esiste davvero una minaccia nucleare?

Il vertice di Seul del marzo 2012 ha riportato l’attenzione della Comunità Internazionale sul tema della (in)sicurezza nucleare. Tema rimasto nel dimenticatoio sotto l’amministrazione Bush, ma riproposto con fermezza dal presidente Obama. Quando si parla di sicurezza nucleare non si fa solo riferimento alla necessità di rivedere le politiche di sviluppo nucleare, né tantomeno la riqualificazione degli impianti a scopo energetico, ma si intende focalizzare l’attenzione in merito alla possibilità che formazioni terroristiche possano trovare appetibile l’acquisizione e la successiva detonazione di un ordigno nucleare o di ciò che viene definito IND, cioè un ordigno nucleare improvvisato (Improvised Nucleare Device).

Mentre fino agli anni ’90 il timore che gruppi terroristici potessero utilizzare un ordigno nucleare rimaneva più una preoccupazione cinematografica che reale, a partire dalla seconda metà dello stesso decennio è esponenzialmente cresciuta la letteratura in materia ed il numero di studiosi che ritengono tale opzione concreta. Ad alimentare l’inquietudine hanno giocato un ruolo rilevante non solo gli eventi dell’11 settembre, ma, soprattutto, il progressivo mutamento dello stesso fenomeno terroristico, che ha visto la proliferazione di organizzazioni di matrice religiosa, caratterizzate da un uso sempre più indiscriminato della violenza, spesso
giustificata attraverso interpretazioni strumentali dei precetti religiosi.

In generale, con l’espressione “minaccia nucleare” si fa riferimento all’utilizzo da parte di formazioni illegali non solo di potenziali ordigni nucleari, ma di tutte quelle armi non convenzionali che, viste le loro caratteristiche intrinseche – bassi costi di produzione e basso livello di tecnologia richiesto per la fabbricazione – risultano maggiormente fruibili da parte dei gruppi terroristici. Per comprendere quanto sia reale la minaccia è opportuno focalizzare l’attenzione su quali di queste formazioni potrebbero mostrare interesse verso l’opzione nucleare, quali sono le risorse su cui dovrebbero poter fare affidamento e quali le modalità ed i mezzi con cui perpetrare la propria azione. In primo luogo, non tutte le organizzazioni terroristiche trovano appetibile una soluzione estrema come quella in questione e la propensione ad agire è il risultato di un calcolo ben preciso, che tenga conto delle potenzialità finanziarie e tecnologiche, ma, soprattutto, delle motivazione e degli orientamenti strategici del gruppo stesso.

Le scelte poste in essere da qualsiasi formazione, dunque, non possono prescindere da una corretta e precisa valutazione del rapporto costi-benefici derivanti dalla loro stessa azione. In questo senso, dunque, le complessità insite a livello organizzativo, economico e tecnologico; la quanto mai probabile azione ritorsiva della comunità internazionale; il possibile scollamento dall’audience di riferimento a causa dell’insostenibilità di azioni particolarmente atroci ed i pericoli connessi all’azione di contrasto delle forze di sicurezza fungono da forte deterrente sia in fase di acquisizione sia di detonazione di un’arma nucleare. A presentarsi, quindi, come
possibili attori interessati a porre in essere un attacco nucleare o radiologico sembrano essere unicamente quelle formazioni che si discostano da una tipologia di terrorismo “classico”, in cui l’azione dei gruppi mirava al perseguimento di obiettivi principalmente politici attraverso l’utilizzo di armi convenzionali e che si distinguono per il carattere altamente selettivo e discriminatorio dei propri atti di violenza, trasformandosi in realtà complesse, dalla natura globale e transnazionale e che inevitabilmente trovano linfa negli sviluppi stessi della società moderna, dove la tecnologia assume un ruolo determinante nell’eliminazione e nella semplificazione delle modalità di comunicazione tra gli attori non statali.

A rappresentare una reale minaccia sembrano dunque essere i gruppi terroristici di matrice religiosa, alcuni dei quali dotati di importanti mezzi finanziari e tecnologici come Al Qaeda, i cui leader, in più occasioni, hanno chiaramente espresso l’importanza strategica di dotarsi di simili armamenti. Per quanto concerne, invece, i mezzi e le modalità di attuazione di un possibile attacco nucleare o radiologico, sono principalmente quattro gli strumenti nelle mani delle formazioni terroristiche: 1) l’acquisizione/costruzione e la conseguente detonazione di un’arma nucleare; 2) il furto o l’acquisto del materiale fissile necessario per la fabbricazione e la detonazione
delle cosiddette armi nucleari rudimentali o IND (Improvised Nuclear Devices); 3) l’attacco o il sabotaggio ad una struttura nucleare che abbia come effetto il rilascio di un grande ammontare di radioattività e 4) l’acquisizione illegale di materiale radioattivo che contribuisca alla fabbricazione e detonazione di un Dispositivo di Dispersione Radiologico (RDD), comunemente chiamata “bomba sporca”.

Mentre appare indubbiamente complesso per la quasi totalità delle organizzazioni terroristiche acquisire un ordigno nucleare intatto o costruirlo per conto proprio, ad alimentare il timore di una deriva nucleare è la possibilità che le organizzazioni terroristiche portino a termine con successo un attacco o un sabotaggio a strutture nucleari, con l’obiettivo di causare una fuoriuscita di radioattività dalle conseguenze difficilmente stimabili in termini non solo di vittime, ma soprattutto di danni economici e ambientali. Ancor più plausibile è, inoltre, la possibilità che le organizzazioni terroristiche riescano nella costruzione della cosiddetta “bomba sporca”, cioè un esplosivo convenzionale armato di Uranio Altamente Arricchito (HEU) o di altri materiali
radioattivi.

Ad acuire la percezione che simili ordigni possano trovare un mercato fertile nella galassia terroristica sono le loro intrinseche caratteristiche, dal momento che la loro costruzione non richiede conoscenze tecniche particolarmente complesse, ma è “sufficiente” avere a disposizione la quantità di materiale fissile necessaria, oggi stoccato in decine di paesi ad uso sia militare sia civile. Da quanto detto sopra si evince come il problema risieda oggi nel pericoloso connubio tra l’ampia disponibilità di materiali fissili e radioattivi in tutto il mondo e i fattori di instabilità propri di alcune zone ad alto rischio, come i paesi appartenenti all’ex blocco sovietico o le zone dove la presenza di formazioni illegali è più concreta, ad esempio il Pakistan e l’intero Medio Oriente.

Ecco perché oggi si parla di sicurezza nucleare, termine ripreso dal Presidente Obama nell’ottica di una graduale, ma quanto mai tempestiva, strategia per rendere sicure le capacità nucleari mondiali disponibili. Una strategia che deve fare i conti con quella capacità camaleontica del fenomeno terroristico, in grado negli ultimi anni di riformulare le proprie strategie e trovare nuove alleanze, come quella estremamente pericolosa che porta alla commistione di interessi con il crimine organizzato.

Uno scenario che vede una crescente comunanza di interessi tra gruppi terroristici e criminalità organizzata desta notevole preoccupazione a causa delle criticità insite nella stessa comunità internazionale di cui una simile alleanza potrebbe oggi giovarsi: l’immensa estensione di confini nazionali in molti contesti non adeguatamente protetti e la miriade di possibili vie per il traffico illecito dei materiali in questione; la straordinaria mole di traffici commerciali legittimi e le difficoltà tecniche ed operative nell’intercettazione di materiali a bassa emissione radioattiva.

Sicurezza nucleare è divenuto, dunque, un concetto ampio, fondato sul principio, resosi oggi necessario, che essa non può dipendere solo da una strategia rivolta al miglioramento delle condizioni di sicurezza del materiale fissile o radiologico, ma è necessario ampliare la dimensione del problema, individuando tutti quei fattori di criticità che possono oggi determinare lo status della minaccia.

Estratto per la stampa dal rapporto Terrorismo nucleare disponibile sul sito dell’Archivio Disarmo.

Credits immagine: U.S. Army/Wikipedia

Romano Zampetti

Laureato in Relazioni Internazionali presso la LUISS Guido Carli e diplomando al Master “Edupace: Relazioni Internazionali, Politiche Europee e Diritti umani”, collabora con l’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo, seguendo le tematiche relative la sicurezza e la geopolitica internazionale, con particolare attenzionerivolta allo studio del terrorismo internazionale e dell’evoluzione della realtà jihadista.

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