Figlie di Minerva

La neutralità della scienza: un tabù molto forte

Oggi, all’inizio del ventunesimo secolo, esistono ancora discriminazioni tra uomini e donne in vari campi della scienza. Queste discriminazioni sono di vario genere: orizzontale, poiché le donne sono concentrate in alcuni campi scientifici, come le scienze biologiche e mediche, o in settori specifici all’interno di discipline più vaste; verticale, poiché in tutte le istituzioni scientifiche pubbliche le donne, pur costituendo in molti casi più della metà del personale scientifico, sono comunque presenti in misura molto ridotta tra i dirigenti e praticamente assenti ai vertici decisionali degli Enti pubblici di ricerca. Inoltre, l’ingresso nel mondo scientifico viene spesso preceduto da un periodo di collaborazione negli Enti di ricerca sia nella forma di borse di studio che nella forma contratti a breve termine, indicati con il termine ‘precariato’ delle carriere di ricerca. In alcune Istituzioni, come ad esempio l’Istituto Superiore di Sanità, quest’ultima forma è a schiacciante maggioranza femminile. Si può determinare così un’ulteriore forma di segregazione, quella di tipo contrattuale: gli uomini hanno più probabilità di lavorare con un contratto a tempo indeterminato; le donne più spesso lavorano con contratto a breve termine. Questa situazione crea un circolo vizioso che svantaggia le donne in quanto lavorare senza una chiara prospettiva per il futuro si rivela, fonte di stress e di insoddisfazione (Brandi, 2000).

Nelle strutture complesse come quelle lavorative, dove sono indispensabili cambiamenti profondi nelle pratiche collettive perché si eliminino o si riducano le discriminazioni, spesso parlare di disuguaglianze di genere è un tabù molto forte. E’ ovvio che qualsiasi forma di discriminazione, diretta o indiretta, non debba trovare posto nella scienza, ma è molto difficile per chi lavora nel mondo scientifico ammettere che questa discriminazione esista e che è necessario individuare e affrontare le forme di esclusione istituzionalizzata, ai fini di migliorare la qualità della scienza e della tecnologia e in nome della giustizia sociale e della democrazia nel mondo scientifico. La scienza e la tecnologia sono, infatti, ambiti in cui l’appartenenza di genere pesa molto. Uno sguardo anche superficiale alla composizione per sesso degli organismi di governo delle istituzioni scientifiche nazionali, ai tavoli delle presidenze di conferenze, ai membri di commissioni e gruppi di studio e valutazione sarebbe sufficiente ad insinuare quantomeno il dubbio che i meccanismi e le regole che operano all’interno del mondo scientifico non siano neutre dal punto di vista di genere. Questo sguardo, però, interviene raramente e finora sono stati pochissimi gli studi – quasi esclusivamente ad opera di ricercatrici – che hanno affrontato il tema dell’appartenenza di genere e delle carriere scientifiche (1).

Recentemente è stato pubblicato il volume Figlie di Minerva (2), che rappresenta il primo tentativo italiano di studiare i percorsi di carriera di uomini e donne nel mondo della ricerca pubblica, si pone l’obiettivo di misurare, valutare e analizzare le differenze di genere nelle istituzioni scientifiche, capire le ragioni delle disuguaglianze esistenti ed identificare possibili soluzioni, che consentano di valorizzare la presenza femminile. L’obiettivo esplicito del volume non è quello di ottenere un trattamento speciale per le donne, ma di evidenziare i vantaggi di cui godono gli uomini, che derivano loro dal modo in cui è oggi organizzata la ricerca scientifica e che non contribuiscono a migliorare la qualità complessiva del sistema ricerca. Infatti, qualsiasi organizzazione che non sfrutti al meglio le risorse umane e i talenti professionali/intellettuali di cui dispone è un sistema che non funziona in modo efficiente e la ricerca scientifica, un settore strategico per il nostro paese, alla luce della prospettiva di genere appare governato da meccanismi che non rispondono a criteri di efficienza, giustizia e democrazia scientifica.

Prime differenze: l’ingresso nella carriera scientifica

Le donne rappresentano circa il 30 per cento del personale degli Enti pubblici di ricerca nel loro complesso, pur con notevoli differenze tra istituzioni, poiché si va dal 16,8 per cento dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare al 55,5 per cento dell’Istituto Superiore di Sanità e oltre il 60 per cento all’Istituto Nazionale di Ricerca per l’Alimentazione e la Nutrizione. Queste differenze dipendono dalla struttura disciplinare degli Enti. Non c’è dubbio infatti che l’elevata femminilizzazione di alcune discipline abbia favorito l’ingresso delle donne in alcuni enti scientifici. Nel tempo si nota un trend crescente nella presenza delle donne nel mondo scientifico sia in valore assoluto che percentuale, e questo rappresenta un progresso innegabile e apparentemente inarrestabile del genere femminile. Per esempio al Consiglio Nazionale delle Ricerche, uno dei maggiori enti pubblici di ricerca italiani, le donne ricercatrici nel 1978 erano solo il 14 per cento del personale di ricerca, sono diventate il 27,8 per cento nel 1993 e hanno superato il 30 per cento al momento attuale.

L’aumento della presenza femminile non è però proporzionale al balzo in avanti che le donne hanno fatto nel campo formativo. Infatti, le studentesse universitarie italiane sono oggi più brave degli uomini: abbandonano meno spesso gli studi (10,3 per cento contro il 15,4 degli uomini), si laureano più spesso nei termini (10,6 per cento contro il 9 degli uomini), conseguono la votazione massima con frequenza maggiore (26,9 per cento contro 17,7 degli uomini). Inoltre, le donne ottengono risultati migliori anche nelle discipline più “mascolinizzate” come nei gruppi ingegneria, scientifico e agrario dove si laureano con il massimo dei voti in percentuali significativamente più alte di quelle degli uomini (Micali, 2000). Quando la scelta universitaria nasce da reali motivazioni ed è fortemente orientata ad una professione per la quale le donne devono prepararsi a competere con l’altro sesso, queste investono molto nello studio, ottenendo una preparazione eccellente di cui il mercato del lavoro dovrebbe tenere conto. Ci sarebbero perciò tutte le premesse per una brillante carriera anche dal punto di vista scientifico.

Eppure le nuove assunzioni di personale scientifico negli Enti pubblici di ricerca italiani non sembrano tenere conto di queste capacità. Al livello iniziale della carriera, ad esempio, nel triennio 1995-1998 di tutti i neo-assunti negli Enti di ricerca italiani quasi il 63 per cento erano uomini e il 37 donne, con una palese discrasia tra quanto accade nel mondo della formazione universitaria, in cui le donne brillano per capacità e competenza, e gli ingressi nel mondo scientifico in cui sono gli uomini ad ottenere risultati migliori. Nel percorso di carriera, le distanze tra i due sessi si approfondiscono man mano che si sale nella scala gerarchica e al crescere del livello, dell’importanza attribuita alla posizione, del salario le donne diminuiscono sensibilmente, fino ad arrivare ad essere in alcune discipline ed Enti una minoranza trascurabile.

Il soffitto di cristallo

Le donne non riescono a superare il tetto del 7 per cento di visibilità ai vertici della carriera scientifica. Il soffitto di cristallo, quell’ostacolo invisibile, ma difficilmente superabile che tante ricercatrici stanno sperimentando nella loro vita, spesso senza avere una idea chiara di cosa si tratti, le tiene nella grande maggioranza dei casi lontane da un percorso di carriera fisiologico, che le vorrebbe rappresentare in molte istituzioni la maggioranza della dirigenza. L’ingresso nel mondo scientifico, infatti, determina un progressivo divaricamento tra le carriere maschili e femminili, sempre a svantaggio delle donne: è la cosiddetta “forbice” nelle carriere, uno dei fenomeni più costanti e regolari, misurabili statisticamente (3). Esistono due modelli di carriera, convergenti verso un unico risultato, che è quello della presenza maggioritaria e soverchiante degli uomini ai vertici. Il primo, che possiamo chiamare “la rincorsa impossibile”, caratterizza le discipline di tipo più strettamente tecnico o le cosiddette scienze “dure” e consiste sostanzialmente in una impossibilità per le donne di riguadagnare lo svantaggio iniziale dato dalla loro minoranza numerica a livello formativo e di accesso alla professione o quanto meno di mantenerlo senza ulteriori penalizzazioni.

Il secondo, invece, detto del “sorpasso” è caratteristico delle discipline dove le donne partono con un vantaggio anche considerevole rispetto agli uomini, e vede le ricercatrici perdere progressivamente terreno fino a finire in minoranza numerica e percentuale nei posti apicali. Ad esempio, le donne laureate in discipline di tipo sociale, economico o biologico partono con un vantaggio lieve al momento della assunzione, ma già nel secondo gradino della carriera sono superate dai colleghi maschi, che finiscono per essere la assoluta maggioranza nel livello della dirigenza.

Ancora peggio va per le donne laureate in discipline umanistiche che rappresentano la schiacciante maggioranza a livello iniziale, ma la cui presenza si riduce progressivamente fino ad arrivare ad una situazione finale addirittura più penalizzante che non negli altri settori scientifici (Palomba, 2000). Il sorpasso degli uomini avviene dunque in qualunque situazione. E’ sorprendente come questo andamento divergente sia costantemente presente in ogni disciplina, Ente, istituzione e addirittura paese. Il recente rapporto Etan della Commissione Europea sulle donne nella scienza ha, infatti, dimostrato che la scarsa presenza femminile nei livelli più alti della università e delle istituzioni scientifiche è un dato comune a tutti i paesi europei e che questa sotto-rappresentazione delle donne compromette il raggiungimento della eccellenza nel lavoro scientifico, rappresenta uno spreco in termini di capacità professionali, oltre ad una palese violazione del diritto di tutti, uomini e donne, di essere valutato e considerato per il proprio lavoro e non per la propria appartenenza di genere (Osborn et al., 2000).

Lo stereotipo più forte: il ritardo

L’analisi della situazione delle donne nel mondo scientifico è resa difficile dalla scarsa attenzione finora prestata alla realizzazione di una raccolta di dati confrontabili e in chiave di genere relativa al personale degli Enti di ricerca. Le informazioni sul personale sono cioè raccolte per altri scopi (soprattutto di bilancio) e molto spesso non contengono l’informazione relativa al sesso. Lo stereotipo molto forte della neutralità della scienza e la radicata convinzione della sua imparzialità ha fino ad oggi reso impraticabile un ragionamento approfondito sulle diversità maschili e femminili nelle carriere scientifiche e sugli interventi politici necessari per correggere le disuguaglianze esistenti. Una delle spiegazioni più comuni dei minori successi di carriera delle donne nella scienza rimanda al “ritardo” con cui queste ultime si sono affacciate alle professioni scientifiche. Le donne, cioè, poiché sono arrivate più tardi degli uomini ad intraprendere la carriera di ricerca, soffrirebbero di una condizione di ritardo fisiologico che si risolverebbe naturalmente col tempo, una volta aumentata la presenza femminile alla base della piramide gerarchica. I dati però smentiscono clamorosamente questa spiegazione. Infatti, analizzando una coorte di 1088 uomini e donne entrati nello stesso anno al Cnr si è potuto dimostrare che le donne a parità di anzianità hanno una probabilità di essere promosse sempre inferiore a quella degli uomini. Isolando, infatti, gli effetti dovuti alle diverse biografie lavorative di uomini e donne, è emerso che il fatto di essere uomo raddoppia la probabilità di essere promosso: ad esempio, dopo 11 anni di anzianità le donne hanno una probabilità di essere promosse del 16 per cento i loro colleghi di 35 per cento. Anche tenendo conto di differenze nel numero di pubblicazioni e l’età fisica alla promozione permangono differenze notevoli tra i due sessi (Menniti, Cappellaro, 2000).

Il meccanismo concorsuale rappresenta un perno fondamentale intorno a cui ruota l’intero sistema ricerca, poiché costituisce, quasi ovunque, lo strumento principe per l’ingresso nella carriera e per l’avanzamento nella stessa, eppure esistono leciti dubbi che donne e uomini siano messi in condizioni di essere giudicati in modo uguale. Sempre più spesso il criterio dell’appartenenza (a un gruppo, una scuola, un istituto, un reparto) sembra prevalere rispetto al criterio del merito e alla luce del nostro studio l’old-boys-network, cioè il gruppo di amici che si conoscono da sempre, si stimano da sempre, si citano da sempre tra loro, sembra purtroppo diventato sistema dentro le nostre istituzioni scientifiche.

Le pubblicazioni e la valutazione del merito

Uno degli elementi universalmente impiegati dalla comunità scientifica nella valutazione dell’attività di ricerca, sia per l’ingresso nelle carriere sia per l’accesso ai livelli più alti, è costituito dalla produzione scientifica, attestata nella maggior parte dei casi, attraverso le pubblicazioni. L’analisi dell’attività pubblicistica è molto complessa sia perché non è solo il criterio numerico della “quantità” di pubblicazioni a dover essere considerato ma anche quello “qualità” e sia perché sono pochissimi gli Enti di ricerca che dispongono di un database relativo alle pubblicazioni del personale. Inoltre, anche nelle istituzioni come il Cnr o l’Infm in cui questo archivio informatizzato esiste, gli autori sono indicati con il nome puntato e l’identificazione del sesso risulta perciò molto complessa. Operando un linkage tra i file del personale e quello degli autori (o coautori) delle 15mila pubblicazioni del Cnr e delle 8mila dell’Infm relative all’anno 1998 si è riusciti ad avere una prima panoramica dell’attività pubblicistica per genere di ricercatrici e ricercatori.

Le donne ricercatrici pubblicano un po’ meno degli uomini (4,7 pubblicazioni annue medie delle donne contro 6,2 pubblicazioni annue medie degli uomini); le differenze in termini di Impact factor sono più ridotte (1,8 degli uomini contro 1,7 delle donne). Queste differenze, analizzate con metodi statistici per individuare i legami che esistono tra pubblicazioni e percorsi di carriera, non sono tali da spiegare le mancate carriere femminili, che risultano invece influenzate dall’appartenenza di genere (Litido et al., 2000). In realtà, le donne concentrano la loro attività pubblicistica dopo i 40 anni, perché prima impegnate sul fronte familiare, mentre gli uomini sono molto attivi dai 35 ai 39 anni.

Questo fa sì che, quando le donne sarebbero pronte per partecipare ai concorsi, trovano molti posti già occupati dagli uomini. La famiglia rappresenta un aspetto importante da affrontare dal punto di vista della politica scientifica. Infatti, mentre si è dimostrato che non è vero che le donne nubili o senza figli facciano carriera con più facilità delle ricercatrici coniugate con figli (Eboli, 1999), negli Enti di ricerca dove esistono informazioni sul contesto familiare del personale si è potuta rilevare una maggiore proporzione di donne senza figli tra le dirigenti (Menniti, Cappellaro, 2000), rendendo perciò evidente che l’obiettivo della parità, che nella sua forma più semplificata e banalizzata significa trattare le donne alla stregua degli uomini, sia un obiettivo non realistico, che finisce per svantaggiare le donne. Inoltre, sempre sul fronte delle pubblicazioni, va sottolineato che per un uomo avere incarichi di responsabilità (direzioni di progetti, di unità di ricerca, di istituti ecc.) si traduce sempre in una moltiplicazione di pubblicazioni, mentre per le donne questo avviene in misura minore. La sinergia positiva instaurata dal genere maschile tra incarichi ottenuti e pubblicazioni induce a volte fenomeni di produzione esagerata, poco rilevante scientificamente e può accadere di veder crescere a dismisura fino a livelli poco credibili la produzione annuale di alcuni ricercatori, oltre ad aumentare il costo del prodotto scientifico.

Infine, sempre per gli uomini esiste un’altra forte sinergia positiva: quella tra posizione raggiunta nella carriera e pubblicazioni. I dirigenti uomini pubblicano, infatti, oltre il 30 per cento in più dei semplici ricercatori, fatto che per le donne dirigenti avviene in misura molto più contenuta. Agli uomini il prestigio connesso alla posizione professionale dà maggiori possibilità di essere invitati a convegni importanti, di venire citati nei lavori dei colleghi, di avere fondi per le ricerche, tutti elementi che sono la base indispensabile per le pubblicazioni, che a loro volta sono uno dei criteri di valutazione importanti negli avanzamenti di carriera. Si viene così a creare un sistema stratificato che giorno dopo giorno svantaggia le donne dando loro sempre meno opportunità di progredire e innescando un meccanismo di auto esclusione dagli stessi concorsi. Il fatto che grandi disuguaglianze si producano attraverso una gamma ampia di differenze, rende il meccanismo di discriminazione meno visibile e dunque più pericoloso (Bianco, 1997).

Le nomine

La scarsa partecipazione delle donne nell’elaborazione delle grande linee programmatiche degli Enti e del sistema di ricerca italiano, nella assegnazione di fondi pubblici per lo svolgimento di progetti e in generale nella gestione delle risorse è un altro argomento di grande rilevanza. Su questo processo che vede la quasi assoluta predominanza maschile in tutte le nomine ai vertici degli Enti di ricerca italiani deve interrogarsi la nostra classe politica. Oggi, sono solo il 5,8 per cento le donne nominate ai vertici scientifici ed anche tra gli esperti nominati in organismi e commissioni nazionali ed internazionali la presenza femminile è bassissima. In realtà, gli organismi politici per trovare esperti di alta qualificazione da inserire nelle strutture decisionali e nelle alte gerarchie degli Enti ricorrono alla rete di conoscenze e questo si traduce in uno svantaggio per le donne. Infatti, le reti consolidate all’interno del sistema scientifico non possono che essere maschili, poiché per lunga tradizione le posizioni di potere nelle università e negli Enti di ricerca sono state occupate da uomini e l’old-boys- network continua a funzionare egregiamente a tutti i livelli.

Per concludere

Tutte le bad practices cioè i comportamenti impropri nella scienza non sono effetto del caso: sono un fenomeno di ampiezza mondiale, osservabile in ogni paese ed in ogni disciplina e per questo motivo sarebbe ingenuo credere che sia sufficiente puntare il dito sugli errori commessi per vederli correggere. E’ una strada lunga, non esistono ricette miracolose, si incontreranno resistenze fortissime poiché è evidente che un ampliamento della presenza femminile produrrà inevitabilmente un restringimento delle opportunità prima riservate agli uomini, che hanno sempre operato nel mondo scientifico in una situazione di quasi monopolio. Questo è il motivo per cui le donne ricercatrici non possono fare questa strada da sole, cioè solo dimostrando con studi rigorosamente scientifici come Figlie di Minerva che sono discriminate, svalutate nei loro talenti e misconosciute nei loro diritti. E’ una strada da percorrere insieme ai politici, perché è un problema politico sia la mancata democrazia nel mondo scientifico sia la perdita economica che deriva al nostro paese dall’investire dal punto di vista formativo sulle donne e non utilizzare le loro capacità professionali al meglio. La studiosa inglese Teresa Rees ha affermato provocatoriamente che la classe politica europea deve decidere se far studiare le donne e sfruttarne poi appieno le capacità professionali ed intellettuali oppure impedire alle donne di accedere all’istruzione superiore e alle carriere scientifiche, risparmiando così denaro pubblico. Si tratta certo di una provocazione, ma è vero che il tema delle donne nella scienza e della loro valorizzazione impone subito una riflessione scientifica e politica, per individuare e mettere in atto azioni correttive e di promozione delle pari opportunità a tutti i livelli delle gerarchie scientifiche del nostro paese.

BIBLIOGRAFIA

Bianco M.L., Donne al lavoro: cinque itinerari fra disuguaglianze di genere, Scriptorium, Torino, 1997
Brandi C., “I periodi bui: in coda per entrare”, in Palomba R. (a cura di), Figlie di Minerva, Franco Angeli, Milano, 2000, pp.53-66
Eboli M.G., “Professione, famiglia e soggettività: una analisi tipologica”, in Carabelli A., Parisi D., Rosselli A., Che genere di economista, Il Mulino, Bologna, 1999, pp.297-324
Litido M., Menniti A., Molinari E., “Le pubblicazioni”, in Palomba R. (a cura di), Figlie di Minerva, Franco Angeli, Milano, 2000, pp.75-88
Menniti A., Cappellaro G., “Le ricercatrici non fanno carriera perché…”, in Palomba R. (a cura di), Figlie di Minerva, Franco Angeli, Milano, 2000, pp.39-53
Micali A., “Gli studi universitari e l’inserimento professionale delle laureate”, in Palomba R. (a cura di), Figlie di Minerva, Franco Angeli, Milano, 2000, pp.17-24
Palomba R., “Figlie di un dio minore”, in Palomba R. (a cura di), Figlie di Minerva, Franco Angeli, Milano, 2000, pp.25-38
Palomba R. (a cura di), Figlie di Minerva, Franco Angeli, Milano, 2000

NOTE

1) Ricordiamo tra gli altri Alicchio R., Pezzoli C., 1987, “Identikit della donna scienziata”, SE Scienza ed esperienza, 17-18; Benigni L., Menniti A., Palomba R., “Pubblici scienziati la carriera imperfetta”, Sistemaricerca, suppl. n.9, 1988; Carabelli A., Parisi D., Rosselli A., 1999, Che “genere” di economista?, Il Mulino, Bologna.

2) Palomba R. (a cura di), 2000, Figlie di Minerva, Franco Angeli, Milano

3) Pur con alcune diversità tra Enti, la carriera scientifica italiana è organizzata su tre livelli a cui corrisponde un diverso salario e un diverso “prestigio”: Dirigenti di ricerca, Primi ricercatori e Ricercatori.

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