Fotografia della salute infantile in carcere

Per la prima volta nel nostro paese è stato analizzato in uno studio scientifico lo stato di salute dei neonati e dei bambini che vivono all’interno di un carcere con le proprie madri. La ricerca  è stata condotta da un gruppo di pediatri dell’Istituto di Clinica pediatrica dell’Università Cattolica – Policlinico Agostino Gemelli di Roma, nella Casa di reclusione Rebibbia, e i risultati sono ora pubblicati su Scandinavian Journal of Public Health. Per quanto riguarda questo carcere in particolare, l’assistenza preventiva e terapeutica appare di buon livello.

Secondo la legge italiana, le neo-madri che stanno scontando una pena detentiva o sono in attesa di giudizio possono tenere con sé i figli dalla nascita fino al raggiungimento del terzo anno di età. Mai prima d’ora, però, era stata condotta un’analisi della condizione sanitaria di questi bambini.

I medici, coordinati dal ricercatore Pietro Ferrara, hanno avuto accesso alle cartelle cliniche dei 150 bambini vissuti in carcere nel corso di un anno e mezzo (dall’inizio del 2003 a metà 2005) e hanno confrontato i loro dati con quelli di altrettanti bambini italiani, e con quelli di 90 bimbi con genitori immigrati, che rappresentano una popolazione vulnerabile.

I ricercatori hanno considerato tempo di gestazione, peso alla nascita, allattamento, svezzamento, curva di crescita, circonferenza cranica, numero di visite specialistiche, numero di patologie per apparato e stato di vaccinazione. “Al loro arrivo in carcere, questi bambini presentano condizioni di salute in media meno buone degli altri”, spiega Ferrara a Galileo: “Sono infatti sotto peso (2,9 chilogrammi in media alla nascita contro i 3,5 dei figli di italiani e i 3,3 dei figli di immigrati), hanno una circonferenza cranica più piccola perché prematuri, e spesso sono malnutriti. In carcere però, chi viene seguito dal personale medico per almeno due anni, riesce a recuperare lo svantaggio e ad annullare le differenze con gli altri bambini. Per quanto riguarda le altre malattie non si registrano differenze significative. Le cure pediatriche fornite ai bambini appaiono quindi di buon livello, sebbene la situazione sia  migliorabile sotto molti punti di vista, a partire dall’informatizzazione delle cartelle cliniche”.

Stando ai dati raccolti, il 20 per cento delle donne che vengono recluse durante la gravidanza hanno periodi di gestazione inferiori alle 37 settimane, contro il 9 per cento dei parti prematuri delle madri immigrate e il 5 per cento in media delle madri italiane. Secondo i medici, l’alto tasso di parti prematuri nelle carceri è dovuto allo stile e alle condizioni di vita delle madri prima della reclusione, come la dipendenza da fumo e droghe. Rispetto alla durata dell’allattamento, è emerso che le madri di tutti e tre i gruppi coinvolti nello studio avevano scelto l’allattamento al seno, ma le mamme in carcere anticipano lo svezzamento rispetto ai cinque mesi di vita consigliati. Questo può portare a una maggiore sensibilizzazione nei confronti degli antigeni alimentari, predisponendo i piccoli alle allergie e aumentare il rischio di intossicazione da sostanze come conservanti o coloranti, dal momento che nei neonati i processi di detossificazione non sono ancora ben sviluppati.

Il dato più preoccupante riguarda le vaccinazioni: solo il 14 per cento di figli di detenuti, infatti, è risultato regolarmente vaccinato al momento dell’ingresso in carcere (contro la quasi totalità del campione di bimbi italiani e l’80 per cento dei figli di immigrati considerati). “Quando arrivano, i bambini non protetti vengono sottoposti alle vaccinazioni previste per la loro età e vengono vaccinati anche i casi dubbi. Così il numero raddoppia”, commenta Ferrara: “La percentuale resta  comunque bassa perché il periodo medio di rimanenza in carcere è di 65 giorni, quindi non è possibile effettuare tutte le profilassi”. Un dato che sottolinea l’urgenza di estendere i programmi di educazione sanitaria e prevenzione all’interno delle strutture di detenzione. (e.r.)

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