Gioco a tre per la p53

Intorno al gene p53 ruotano molte ricerche e molte speranze per una possibile cura del cancro. Una sua mutazione è presente in circa il 50 per cento dei tumori. Si tratta infatti di una specie di barriera naturale che l’organismo alza quando il Dna viene “insultato” da qualche agente esterno, per esempio anche quando ci esponiamo eccessivamente al Sole: la proteina p53 a quel punto si attiva, ferma la divisione delle cellule che, se il danno è riparabile, riprenderà successivamente alla riparazione. Se invece il danno è grave, p53 viene super-attivata dalla proteina HIPK2 e le cellule irreparabilmente danneggiate muoiono per apoptosi, il cosiddetto suicidio cellulare.

In questo modo la cellula cancerosa non si può moltiplicare e quindi invadere l’organismo. Cosa accade alla p53 quando invece il tumore prolifera? La proteina deve essere in qualche modo mutata o inattiva. A svolgere questo compito, come ha dimostrato il lavoro che sarà pubblicato a marzo su “The Journal of Clinical Investigation” da Silvia Soddu, ricercatrice del Dipartimento di Oncologia Sperimentale dell’Istituto Regina Elena di Roma, sono le proteine HMGA1 che impediscono alla proteina HIPK2, indispensabile per attivare p53, di entrare nel nucleo spingendola nel citoplasma.

“In collaborazione con il gruppo di Alfredo Fusco dell’Università Federico II di Napoli”, ha dichiarato Soddu, “abbiamo dimostrato che le proteine HMGA1, frequentemente alterate nei tumori, svolgono la loro attività pro-tumorale di oncogeni inibendo la super-attivazione di p53”. Per verificare se questo meccanismo molecolare individuato manipolando delle cellule in cultura fosse presente anche nei tumori umani, i ricercatori hanno analizzato campioni di biopsie provenienti da tumori della mammella e hanno verificato una iperespressione delle HMGA1 e una segregazione della HIPK2 nel citoplasma.

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