Giustizia per il mio Ruanda

Nell’aprile del 1994 il Ruanda, piccolo stato africano della regione dei Grandi Laghi, viveva la pagina più triste della sua storia: con l’assassinio del presidente Habyarimana cominciava la guerra civile tra le etnie hutu e tutsi. In cento terribili giorni, gliestremisti hutu trucidarono un milione di Tutsi e migliaia di Hutu moderati. Il paese cambiò improvvisamente volto: intere famiglie furono annientate, più di 400.000 bambini rimasero orfani, mentre il 70 per cento delle donne (che rappresentano il cinquanta per cento della popolazione) rimasero vedove.

Oggi, a sei anni dalla tragedia, il Ruanda vive ancora in un’atmosfera di grande tensione. Ma c’è chi non vuole semplicemente dimenticare: Yolande Mukagasana, infermiera tutsi miracolosamente scampata al massacro, ha deciso di promuovere la riflessione e il dialogo sul genocidio per restituire dignità a tutto il suo popolo. Galileo l’ha intervistata in occasione dell’incontro organizzato nei giorni scorsi a Roma da “Medici senza Frontiere” (http://www.msf.it/), l’associazione premio Nobel per la pace, impegnata nell’assistenza alle popolazioni travolte da conflitti e da calamità naturali.

Signora Mukagasana, quali sono state le ragioni dell’odio tra Hutu e Tutsi?

“La rivalità fra Hutu e Tutsi è un fenomeno piuttosto recente. Fino al 1900 le due etnie vivevano in armonia, distinte da precise regole sociali. Furono gli europei – Tedeschi e Belgi giunti in Ruanda sul finire del XIX secolo – a innescare la contrapposizione tra i due gruppi. Privilegiando i Tutsi, crearono una forte discriminazione mai esistita prima. Molto presto gli Hutu rimasero esclusi da molti servizi sociali come l’istruzione, riservati ai Tutsi. Negli anni 50 i Tutsi – più ricchi, istruiti e inseriti nella società rispetto agli Hutu – cominciarono a parlare d’indipendenza. Persero quindi l’appoggio del regime, che si alleò con gli Hutu e promosse la distruzione sistematica dei Tutsi, fino al tragico epilogo di sei anni fa. Ma le radici del genocidio sono soprattutto politiche, non etniche: in Ruanda non era mai esistito scontro tra etnie, fu il regime di Habyarimana a determinarlo”.

Come le ha cambiato la vita questa guerra?

“Ho perso tutta la mia famiglia: mio marito, tre figli, e tutti i parenti. Sono salva grazie a una donna hutu, ma conosco la realtà della guerra fratricida: all’età di 6 anni una lama di machete mi attraversò la coscia, e ne porto ancora i segni. Per tutta la vita ho cercato di capire perché io e la mia famiglia, in quanto tutsi, eravamo considerati diversi da altri nostri concittadini. Dopo il massacro, nel febbraio del 1995, sono scappata in Belgio. Ma non volevo dimenticare il mio paese: allora è cominciato il mio impegno per mantenere vivo il ricordo e la verità del genocidio. Solo capendo il suo passato il mio popolo potrà ritornare a una vita umana e dignitosa”.

Lei ha detto: “L’umanità è impossibile senza il perdono, il perdono è impossibile senza la giustizia, ma la giustizia è impossibile senza umanità”. Quali progressi vede nella coscienza della sua gente e nella giustizia dei Tribunali?

“Il dialogo con la mia gente dà ogni giorno piccoli risultati positivi. Il mio obiettivo è superare la paura e l’isolamento in cui la violenza ha gettato le persone. Una volta stabilita la verità sul genocidio noi ruandesi torneremo a fidarci l’uno dell’altro. Solamente attraverso il dialogo tra chi ha fatto del male e chi lo ha subito potremo esorcizzare la paura reciproca. La fiducia sarà la base per fare giustizia, e la giustizia restituirà umanità a ciascuno di noi. Sulla giustizia dei Tribunali il mio impegno può fare poco. Credo molto nel percorso di verità iniziato insieme alla mia gente”.

Ma oggi nella sua terra c’è giustizia?

“Non ancora. Molti dei 130.000 detenuti nelle nostre carceri sono in realtà innocenti, e i processi sono lentissimi. I responsabili dei massacri sono migliaia, invece: pochissimi sono stati arrestati e giudicati ma la maggior parte di loro vive ricca e libera negli Stati vicini. Il Tribunale (http://www.ictr.org/) creato ad hoc dalle Nazioni Unite quattro anni fa, pur costando molto alla comunità internazionale, non sta dando risultati significativi: finora sono state imputate solo 39 persone e appena 6 sono state giudicate. Chiedo giustizia per la mia terra: è l’unico modo per riportare la mia gente alla vita”.

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