Sul modello della famosa teoria degli equilibri punteggiati proposta dai paleontologi Stephen Jay Gould e Niles Eldredge, secondo la quale la comparsa di nuove specie non avverrebbe in maniera graduale, Quentin Atkinson e Mark Pagel dell’Università di Reading (Gb) hanno proposto un modello di “evoluzione a balzi” anche per il linguaggio umano. Come i ricercatori descrivono sull’ultimo numero di Science, i linguaggi sembrano infatti attraversare lunghi periodi in cui rimangono pressoché immutati, alternati a momenti in cui si trasformano rapidamente, quando le popolazioni si separano.
Come i biologi utilizzano i geni per seguire l’evoluzione delle specie, Atkinson e Pagel hanno preso in considerazione un gruppo di parole-chiave scelte fra quelle appartenenti alla cosiddetta “lista Swadesh” (una serie di vocaboli, stilata negli anni Cinquanta, utilizzata per valutare la distanza e le analogie fra le lingue), e ne hanno seguito l’evoluzione in diverse famiglie linguistiche. Sono state scelte le parole meno influenzabili dall’ambiente e dalla cultura (quelle che riguardano per esempio parti del corpo o concetti comuni come “bere” e “mangiare”) e quindi adatte per confrontare lingue diverse.
Servendosi di un modello matematico, i ricercatori hanno studiato come le parole si sono modificate nelle famiglie linguistiche indoeuropea, bantu e oceanica, e hanno verificato che le lingue di popolazioni con una storia più complessa e “ramificata” sono cambiate maggiormente e più rapidamente delle altre. Un esempio è rappresentato dai vocabolari delle varie lingue bantu: il 30 per cento delle parole che differiscono ha avuto origine nei momenti in cui i gruppi si sono separati dalle loro popolazioni di origine. “E la lingua inglese”, raccontano gli autori, “nacque quando i Sassoni invasero la Gran Bretagna, abbandonando ogni legame con il continente”. (s.s.)
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