Categorie: Società

Gli ultimi giorni del Pnra

Il tempo sta per scadere. Anzi: è praticamente terminato. Se entro la fine di giugno il governo non metterà mano al portafoglio stanziando fondi per il Programma Nazionale di Ricerca in Antartide, il consorzio (formato da Cnr, Enea, Ingv e Ogs) che ne garantisce l’attuazione sarà costretto a chiudere. Il suo statuto prevede infatti che se entro il 30 giugno non vengono erogati dei fondi, i partecipanti sono chiamati a scioglierlo.

Con conseguenze gravissime. La prima: l’Italia getterebbe alle ortiche 500 milioni di euro. Tanti sono infatti i soldi che il nostro paese ha stanziato dal 1985 a oggi e cioè da quando è iniziato il Pnra. Che nel corso di questi 23 anni ha messo in evidenza la ricerca italiana, con notevoli scoperte e studi all’avanguardia. Insieme ai soldi (e quindi alla possibilità di fare ricerca) si butterebbero poi i benefici che hanno ottenuto le nostre aziende dagli studi condotti in Antartide per non parlare dei vantaggi geopolitici e di estrazione mineraria che si ottengono dal mantenimento di un avamposto in un luogo del mondo che (al momento) non appartiene ad alcun paese.

Eppure nonostante tutti questi potenziali vantaggi i governi nazionali che si sono alternati in questi ultimi anni non hanno pensato che il Pnra fosse una priorità. I primi segnali cattivi sono arrivati nel 2005. Quando – dopo anni di stanziamenti di 35 milioni di euro di media ogni 12 mesi – nell’ultima finanziaria del terzo governo Berlusconi non viene previsto neanche un euro per il Pnra. L’allora ministro della Ricerca Letizia Moratti non avverte il consorzio e fa sapere che i soldi potranno essere racimolati dai fondi destinati alla ricerca. “Così, quell’anno riuscimmo a recuperare 19 milioni di euro, nove dal Miur e dieci provenienti dalla posticipazione di alcune attività e dal risparmio delle precedenti missioni”, spiega a Galileo Antonino Cucinotta, direttore generale del consorzio per l’attuazione del Pnra.

L’anno dopo andò peggio. La prima finanziaria del governo Prodi non stanziò soldi e il Pnra riuscì a recuperare 13,8 milioni di euro (dieci dal Miur). Denaro che non è servito a nuove attività di ricerca ma solamente a mantenere il materiale che è stato inviato al Polo Sud nel corso di questi anni.

È stata però la seconda finanziaria di Prodi a dare il colpo di grazia: nessun soldo, neanche nei fondi destinati alla ricerca. Ecco quindi che se entro la fine di giugno non dovesse arrivare il denaro necessario per proseguire, il Pnra potrebbe chiudere una volta per tutte.

Ma quanti soldi servono? “Circa sette milioni di euro, il finanziamento necessario per mantenere le nostre attività e rispettare gli accordi intergovernativi che abbiamo firmato con gli altri paesi, per esempio con la Francia”, risponde Cucinotta. Accordi che devono essere disdetti con un preavviso di almeno 12 mesi. Ma il tempo per disdirli ora non c’è più. Ecco perché c’è un cauto ottimismo sullo sblocco della situazione. La fine del Pnra non sarebbe solo l’ennesimo caso italiano di ricerca non finanziata, ma anche un’inadempienza nei confronti di altri stati con cui sono state siglate delle partnership scientifiche.

Un cauto ottimismo c’è. Quello che ancora manca, però, è un segnale del neoministro Mariastella Gelmini. E il tempo sta per scadere.

Federico Ferrazza

Giornalista, è nato nel 1978. E' coordinatore del sito Wired.it. Ha scritto di tecnologia, new media e scienza per alcune delle principali testate nazionali; tra queste: Galileo, La Repubblica, Il Sole 24 Ore, L’espresso, Il Venerdì di Repubblica, Wired Italia, XL, Il Corriere delle Comunicazioni, Sapere. Insegna new media e giornalismo on-line in alcuni master universitari. 

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