Il 2015 è stato un anno di sangue per gli ambientalisti. Non sono mai state assassinate così tante persone tra quelle che difendono la loro terra, i fiumi e le foreste, dalle industrie che ne sfruttano illegalmente le risorse. I numeri sono scioccanti: secondo un documento di denuncia pubblicato dall’organizzazione Global Witness, l’anno scorso sono state uccise 185 persone in 16 paesi, quindi in media sono morte più di tre persone ogni settimana. La triste classifica è guidata dal Brasile (50 uccisioni, le Filippine (33) e la Colombia (26). “Per ogni omicidio da noi documentato”, scrive Global Witness nel report, intitolato On Dangerous Ground, “ce n’è qualcun altro nascosto. Purtroppo i nostri dati sono sottostimati. Molti degli omicidi sono avvenuti in villaggi isolati e immersi nelle foreste, per cui è altamente probabile che i morti siano di più”.
La vita di 1.6 miliardi di persone nel mondo è legata alle foreste, dalle quali dipendono integralmente 60 milioni di indigeni. Ed è proprio in difesa degli indigeni che nel 2015 sono morti Raimundo dos Santos Rodrigues, Berta Cáceres e Dionel Campos, le vittime simbolo della lotta pacifica a difesa della propria terra. Raimundo dos Santos Rodrigues e sua moglie Maria hanno subìto un’imboscata per mano di due uomini non identificati. L’uomo difendeva assiduamente la Riserva Gurupi, un’area ricca di biodiversità che si trova nella provincia di Marañao, in Brasile, all’interno della Foresta Amazzonica. La regione è seriamente minacciata dal disboscamento illegale. Berta Cáceres è stata uccisa nella notte da un assassino che ha fatto irruzione dentro la sua casa a La Esperanza, in Honduras, aprendo il fuoco. La donna si batteva pacificamente per difendere le terre degli indigeni, in particolare si opponeva alla diga Agua Zarca. L’anno scorso le è stato assegnato il prestigioso Premio Goldman Ambientale. Michelle Campos non è stata ancora uccisa ma sa che sta rischiando la vita per le sue continue denunce dei crimini perpetrati al popolo indigeno dei Lumad, a Mindanao, nelle Filippine. In una lettera aperta pubblicata in un giornale di Manila racconta la brutale uccisione di suo padre Dionel Campos e suo nonno per mano di un gruppo armato, che ha compiuto l’omicidio davanti alle facce sgomente dei familiari e di tutta la comunità. Dionel Campos guidava una campagna pacifica contro lo sfruttamento delle riserve di carbone, oro e nichel da parte delle compagnie minerarie internazionali e locali.
La maggior parte degli attivisti assassinati si era scagliato contro le industrie minerarie e di estrazione (42 vittime), le aziende agricole (20) e del legno (15), le dighe (15) e il bracconaggio (13). La collusione tra organi dello Stato e interessi delle compagnie che sfruttano il territorio illegalmente è spesso la prima causa degli omicidi. Global Witness ha segnalato 16 casi legati a gruppi paramilitari, 13 all’esercito, 11 alla polizia e 11 alla sicurezza privata. La corruzione dello Stato emerge anche dal fatto che difficilmente le autorità completano le indagini o prendono provvedimenti contro i criminali.
Per mettere un freno alla carneficina, Global Witness ha lanciato un appello. I governi, le compagnie industriali e la comunità internazionale devono prendere misure forti e condivise per proteggere le terre degli indigeni e gli attivisti che le difendono. È inoltre necessario aprire indagini sugli omicidi degli ambientalisti per trovare e arrestare i colpevoli. I governi non devono processare gli attivisti e, anzi, devono permettere loro di esprimere liberamente le loro idee facilitando così l’avviamento di un dialogo costruttivo. È infine necessario risolvere alla radice il problema della violenza riconoscendo formalmente alcuni diritti rivendicati dagli indigeni sulle loro terre, ma anche combattendo la corruzione e lo sfruttamento illegale delle risorse.