Hi-tech versus biotech

    Definire l’ovvietà. Distinguere ciò che è automatico e scontato da ciò che non lo è. Il compito, per niente banale, spetta nientemeno che alla Corte Suprema statunitense, che sta per pronunciarsi su una disputa in materia di brevetti. È una decisione attesa con il fiato sospeso non solo dai diretti interessati (due aziende americane, la Ksr international e la Teleflex, che rivendicano royalties su pedali elettrici per automobili), ma dall’intero comparto delle aziende hi-tech e da quello biotech. Due mondi l’un contro l’altro armati, a difendere interessi opposti in fatto di proprietà intellettuale. Ciascuno dei due, come scrive Michael Samardzija della University of Texas sul numero di  Science di questa settimana, ritiene che le proprie stesse sorti dipendano dalla sentenza della Corte. “Sarà una delle pochissime sentenze della Corte Suprema Statunitense in materia, ed è importante perché sarà utilizzata come un precedente per difendere l’una o l’altra posizione”, conferma Olga Capasso, consulente europeo in brevetti presso la de Simone & Partners.

    Il motivo del contendere sta tutto nella definizione di che cosa sia brevettabile. Per la legislazione americana, come per quella europea, un’invenzione può ottenere un brevetto se rispetta, fra le altre cose, due requisiti fondamentali: di novità e di non-ovvietà. Per quanto rigorosi si possa essere, nella valutazione dell’attività inventiva resta un margine decisionale difficilmente eliminabile. E mentre aziende di elettronica, informatica e telecomunicazioni premono perché l’ago della bilancia penda sul versante meno permissivo, quelle che fanno capo alle scienze della vita spingono per l’esatto opposto.

    Capasso spiega: “Tradizionalmente,  il settore biotech ha  ricavato successo commerciale ed economico difendendo l’istituzione brevettuale e mantenendo alta l’attività inventiva. Per questo, all’industria farmaceutica conviene mantenere forte la protezione dei brevetti e spingere perché il livello di non-ovvietà, come lo definiscono gli statunitensi, resti alto. Viceversa vale per il settore dell’elettronica, che preme per abbassare gli standard di non-ovvietà, puntando a sminuire il valore dello strumento brevettuale”.

    Due visioni antitetiche del mondo? Niente affatto, semplicemente due sistemi economici organizzati diversamente. Il brevetto conferisce un vantaggio commerciale a chi lo possiede: la  possibilità di vendere in regime di monopolio, escludendo gli altri dallo stesso mercato. Le industrie farmaceutiche hanno costruito la loro fortuna sul regime di esclusiva commerciale, recuperando con i profitti della copertura brevettuale sui medicinali gli investimenti “a perdere”  della lunga fase di ricerca. Nel settore hi-tech le cose stanno diversamente, e i guai con un severo sistema sono di due tipi: il primo, come dice Capasso, è quello dello sbarramento: “I brevetti di sbarramento impediscono alle piccole società di operare, paralizzando l’attività commerciale di moltissime piccole e medie imprese del settore hi-tech, che preferirebbero che nulla fosse brevettabile per agire in libertà sul mercato”.

    L’altro problema è rappresentato dalle cause di risarcimento legate alla violazione dei brevetti. È molto difficile infatti dimostrare l’attività inventiva nelle nuove tecnologie, che spesso sono meramente un avanzamento di quelle precedenti. Nel 2002, per esempio, lo U.S. Patent and Trademark Office (Uspto) ha rilasciato l’approvazione per 90mila brevetti riguardanti vari aspetti della cpu (central processing unit) dei computer, composta da 10mila unità. Le inevitabili sovrapposizioni costringono spesso le aziende ad affrontare accuse di violazione brevettuale: ogni denuncia, oltre al rischio delle ingenti spese di risarcimento danni, mette in pericolo il permesso di commercializzare il dato prodotto. Per limitare i danni, quindi, le aziende hi-tech preferirebbero che l’ovvietà fosse più facile da dimostrare e i brevetti più difficili da ottenere.

    Nel mondo di Big Pharma le cose vanno diversamente, perché la partita si gioca fra pochi colossi, e i brevetti funzionano benissimo. In realtà, quindi, “più che il mondo hi-tech e biotech”, come nota Capasso, “sono in contrapposizione due sistemi economici diversi, l’uno costituito in prevalenza da molte piccole e medie imprese e l’altro rappresentato principalmente da pochi e grandi”.

    La situazione, comunque, potrebbe non restare così a lungo. Anche il settore farmaceutico, infatti, sta subendo dei cambiamenti: sono in aumento le start-up biotech e sempre più spesso i piccoli e grandi centri universitari avanzano richieste di brevetti. Big Pharma comincia ad avere piccoli concorrenti che smuovono le acque sotto la superficie. “In Germania e in Inghilterra il fenomeno è già evidente, continua Capasso. “In Italia, dove la ricerca è meno sentita come valore, ancora no. I brevetti, d’altronde, sono figli della buona ricerca: se manca quest’ultima, l’istituzione brevettuale non va né bene, né male, solo non sussiste”.

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