Il nome di Valeria Ferrari è il primo, in alto a sinistra. Sotto il suo compaiono quelli di John Friedman, Stephen Hawking, Roger Penrose, Kip Thorne, Edward Witten e di altri sei giganti dell’astrofisica. Il manifesto che annuncia il congresso dell’Università di Chicago dedicato alla memoria di Subrahmanyan Chandrasekhar fa un certo effetto. Anche a Valeria Ferrari, che con il grande astrofisico indiano ha collaborato dal 1983 al 1995, anno della sua scomparsa. Chandrasekhar era già diventato una leggenda, e intorno a lui fiorivano storie al confine tra realtà e fantasia. Come quella secondo cui nel 1930, durante il viaggio in nave che dall’India l’avrebbe portato in Inghilterra, calcolò quanto dovesse valere la massa di una stella perché, durante la sua evoluzione, si potesse trasformare in una nana bianca. Nella sua stanza del dipartimento di fisica dell’Università di Roma “La Sapienza” Valeria Ferrari sta preparando l’intervento che aprirà il congresso di Chicago. Si interrompe per rispondere alle nostre domande.
Professoressa Ferrari, come valuta la sua partecipazione a questo congresso in cui un numero limitato di studiosi, e molto famosi, renderà omaggio a Chandrasekhar?
“Di sicuro mi hanno invitato perché sono stata la persona che ha lavorato più a lungo con “Chandra”. La cosa che mi ha gratificato di più è di essere stata chiamata ad aprire i lavori. Credo che questo rappresenti anche un riconoscimento alla mia attività scientifica. Spero di non deludere le aspettative degli organizzatori”.
Come è iniziata la sua collaborazione con Chandrasekhar?
“Lo incontrai nel 1983. Lui venne in Italia per un congresso sulla relatività generale che si svolgeva a Padova. Io presentai una relazione sulla fisica dei buchi neri, al termine della quale cominciammo a parlare. Chandrasekhar si dimostrò molto interessato al mio lavoro e mi invitò ad andare da lui, all’Università di Chicago. Inizialmente lavorammo sulle onde gravitazionali, le vibrazioni che si propagano nello spazio-tempo, previste dalla relatività generale di Einstein ma non ancora osservate. In particolare ci occupammo delle equazioni che descrivono la collisione e la successiva interazione di due onde gravitazionali, un fenomeno analogo all’interferenza per le onde elettromagnetiche. Con la differenza che nel caso gravitazionale le equazioni sono non lineari e quindi intervengono fenomeni molto più complessi. Due anni più tardi abbiamo cominciato a studiare la teoria delle perturbazioni stellari”.
Cos’è una perturbazione stellare?
“Una stella si dice perturbata quando, per esempio, una certa quantità di materia cade sulla sua superficie. Ogni elemento del fluido che costituisce la stella si sposterà dalla posizione di equilibrio, e conseguentemente cambierà la distribuzione di energia e il campo gravitazionale. Il modo in cui si modifica il campo si manifesta sotto forma di onde gravitazionali”.
Che relazione c’è tra l’interferenza di onde gravitazionali e le perturbazioni stellari?
“Le stelle perturbate sono esse stesse sorgenti di onde gravitazionali. Ma c’è anche un legame formale. Negli anni Settanta era stata sviluppata la teoria delle perturbazioni dei buchi neri, immaginando una collisione tra questi ultimi e le onde gravitazionali. L’idea di Chandra era che anche la teoria delle perturbazioni stellari si dovesse trattare in modo analogo, come una teoria di collisioni di onde sul campo gravitazionale associato alla stella. Iniziammo cercando una legge di conservazione dell’energia e prendemmo spunto dalla fisica atomica. Immaginammo la stella come se fosse un nucleo atomico caratterizzato da fenomeni descritti dall’equazione di Schroedinger. Come prevede questa teoria, è possibile studiare la composizione di un nucleo atomico dal modo in cui vengono riflesse le onde che lo hanno investito. Allo stesso modo si può studiare una stella immaginando di colpirla con onde gravitazionali”.
Quali sono i risultati emersi durante i dodici anni di collaborazione con Chandrasekhar?
“Innanzitutto abbiamo trovato una legge di conservazione dell’energia per le perturbazioni stellari, e abbiamo anche scoperto che esiste un secondo tipo di perturbazione del campo gravitazionale, indipendente dalla distribuzione del fluido nella stella. Un altro risultato importante è stato quello relativo alle stelle rotanti. Se una stella ruota debolmente, e con lei lo spazio-tempo che la circonda, i due tipi di perturbazioni, quelle dipendenti e quelle indipendenti dal fluido, si sommano. Questo fenomeno fa comparire delle nuove frequenze alle quali le onde gravitazionali vengono emesse”.
Risultati che però sembrano lontani dal poter essere verificati con esperimenti.
“Il valore di questi studi, almeno per noi, è che fanno emergere la bellezza intrinseca dell’universo. Ma hanno anche un’importanza pratica. Supponiamo che un giorno vengano scoperte le onde gravitazionali e si ricostruisca la forma del loro segnale. Allora si saprebbe quali sono le frequenze che questo segnale contiene. Se noi riusciamo a stabilire una relazione tra la struttura del corpo celeste e il tipo di frequenze che ci si deve aspettare, una volta nota la forma delle onde gravitazionali si potrebbe dedurre se a emetterle è stata, ad esempio, una stella o un buco nero. E’ in quest’ultimo caso si tratterebbe della prima prova diretta dell’esistenza dei buchi neri”.
Dunque risultati molto importanti. Ottenuti lavorando in due continenti diversi. Lei a Roma, Chandrasekhar a Chicago.
“Non sempre. Io andavo lì per uno o due mesi, tra un semestre e l’altro. Durante il resto dell’anno lavoravamo a distanza comunicando via fax o per telefono. Poi, quando Chandra aveva scritto un articolo, veniva a Roma per completarlo e per fare le ultime verifiche. Non abbiamo mai trascorso molto tempo insieme. Tuttavia in certi periodi eravamo in contatto continuo perché io eseguivo i calcoli e glieli spedivo col fax la sera, che per lui era mattina. Quando arrivavo nel mio studio il giorno dopo trovavo già il fax con le sue correzioni”.
Quale ricordo le ha lasciato?
“Era una persona estremamente generosa. Gli sono debitrice soprattutto perché metteva le sue conoscenze a disposizione di chi lavorava con lui. Anche quando eravamo impegnati in un calcolo complesso, se c’era una cosa che io non sapevo, lui si fermava e me la spiegava in modo dettagliato. Era una persona molto ricca dal punto di vista umano. Però negli ultimi anni guardava con amarezza alla vita. Ogni giorno arrivava il momento in cui si metteva seduto e diceva che l’esistenza non gli aveva dato quello che si aspettava, che non era contento. Gli ho chiesto spesso cosa avrebbe desiderato dalla vita. Aveva lavorato fino a 84 anni, da quando ne aveva 18, e nel 1983 aveva ricevuto il premio Nobel. Ha sempre avuto un livello di produzione scientifica elevatissimo, dall’inizio della carriera fino alla fine. Come poteva non essere soddisfatto di sé? Eppure lui ricordava quando a Cambridge vedeva passare Sir Arthur Eddington, l’astronomo per eccellenza, che giocava con l’ombrello e fischiettava. Chandra pensava che, arrivato alla fine della vita, un uomo dovesse essere felice come lo era Eddington. Invece lui, dentro di sé, non trovava quella serenità. Forse perché era ormai un uomo anziano, e non aveva avuto una vita facile. Aveva subito gravi malattie e affrontato seri problemi di famiglia. Quando si era trasferito negli Stati Uniti aveva sofferto a causa del razzismo che, anche se strisciante, era una realtà. Ricordo però che in alcuni momenti della giornata era una persona estremamente gioiosa, che esprimeva un entusiasmo genuino per il lavoro. Quando ottenevamo un risultato nuovo era felice, così come era felice quando, insieme alla moglie, andavamo a un concerto o a teatro. Se c’era una cosa di cui si rammaricava era di aver dedicato troppo tempo alla scienza e troppo poco alla vita culturale. Diceva sempre: “Se avessi letto più Shakespeare…”.
Da poco è scomparso Abdus Salam. Anche lui era un grande fisico venuto dall’Oriente. Salam ha continuato a rispettare per tutta la vita alcuni canoni della cultura islamica da cui proveniva. Cosa era rimasto di indiano in Chandrasekhar?
“Forse la sua filosofia di vita. Chandra non si è mai occidentalizzato del tutto, nonostante l’influenza anglosassone. Aveva la capacità di rielaborare le difficoltà incontrate durante la sua carriera. In quelle occasioni, secondo me, emergeva la sua cultura orientale, la capacità di dare un posto alle cose e di proseguire per la propria strada”.
Aveva una visione religiosa del mondo?
“No, assolutamente. Era un ateo convinto e dichiarato”.
La biografia di Chandrasekhar, scritta da Kameshwar C. Wali, comincia con la descrizione di una foto affissa nello studio dello scienziato indiano. Secondo Chandrasekhar quella foto descrive in modo perfetto l’impossibilità dello scienziato di accedere alla completa conoscenza di strutture che pure intravede. Considerazioni strane per un scienziato che ha dedicato tutta la sua vita a comprendere l’universo, non crede?
“Sì, ma anche in questo caso si tratta di considerazioni che esprimeva negli ultimi anni. Da giovane era una persona piena di entusiasmo e di fiducia. Forse, riteneva di non aver raggiunto gli obiettivi che si era prefisso, ma probabilmente erano obiettivi di altissimo livello. Infatti i suoi risultati sono ben al di sopra di quelli ottenuti da qualsiasi bravo scienziato”.
Il 14 dicembre lei aprirà a Chicago il congresso in memoria di Chandrasekhar. E sarà l’unica donna a parlare, tra scienziati maschi dai nomi altisonanti. Si sente un’eccezione?
“Per il momento sì. Sono convinta però che la situazione cambierà radicalmente nei prossimi dieci o vent’anni. Per esempio, negli ultimi tre anni, dei cinque laureandi seguiti da me, tre sono donne. E altre due preparano con me la tesi di dottorato. Il numero di donne nell’astrofisica teorica sta crescendo. Che molte chiedano la tesi a me è probabilmente dovuto al fatto che in me cercano un modello. E l’assenza di donne in certi campi è anche dovuta all’assenza di modelli. Purtroppo ancora vale il principio che, a parità di merito, tra un uomo e una donna si scelga l’uomo. Soprattutto per i ruoli più prestigiosi”.