I pregiudizi degli scienziati

Abbiamo incontrato scienziati che amano abbastanza la propria disciplina da non volerla privare dell’intelligenza delle donne. Ancora troppo pochi. Era il Natale del 2000, in Italia si discuteva dell’esito della Commissione Dulbecco che doveva suggerire se e come autorizzare la ricerca sulle cellule staminali. Queste, si sa, sono totipotenti, pluripotenti, multipotenti, in ordine crescente di difficoltà di reperimento nell’organismo umano, e con potenzialità decrescenti di formare qualunque tipo di tessuto, le più promettenti essendo le totipotenti, nate nei primissimi giorni dello sviluppo embrionale. Per una donna il dibattito aveva una comicità surreale. Ventiquattro signori, alcuni votati al celibato, litigavano sull’eventuale uso di embrioni senza consultare chi normalmente li fa, li partorisce, li accudisce e li trasforma in persone umane. Due mesi dopo, alcuni scienziati organizzavano una protesta contro provvedimenti ministeriali visti come restrittivi della libertà di ricerca. Di nuovo signori rissosi occupavano l’intero spazio pubblico (l’eccezione in entrambi i casi era Rita Levi Montalcini che, data la fragilità, sarebbe ingiusto tirare in ballo). In entrambi i casi le ricerche erano svolte in maggioranza da donne. Zitte e assenti.

Basta dare un’occhiata alle tabelle di Figlie di Minerva (Franco Angeli, Milano 2001), il volume curato da Rossella Palomba sulle carriere femminili nei centri di ricerca statali, per vedere che le donne non contano. Anche nelle discipline in cui sono più numerose degli uomini, non fanno “massa critica”, smentendo così la teoria che sta dietro alle pari opportunità. Rimangono bassa manovalanza, quasi mai raggiungono posti di responsabilità. Eppure le studentesse in materie scientifiche si laureano con voti migliori degli studenti e iniziano nella carriera con parecchia fiducia in sé. Peccato che i colleghi di laboratorio gliela facciano passare subito. La scienza è competitiva e le donne – si dice – preferiscono aggirare le difficoltà, cercare mediazioni, evitare il confronto diretto. Lo stereotipo, come molti altri, non è confermato dai dati di Rossella Palomba e delle sue coautrici: per resistere nonostante il machismo, la retribuzione da fame e il precariato che le colpiscono più dei colleghi, quelle che non abbandonano la ricerca entro i primi cinque anni hanno per forza di cose una passione, una tenacia e una tempra invidiabili.

Le stesse osservazioni si trovano nel rapporto Etan della Commissione Europea, in Athena Unbound. The Advancement of Women in Science and Technology di Henry Etzkowitz, Carol Kemelgor e Brian Uzzi (Cambridge University Press, New York 2000 – Londra 2001), in The Gender and Science Reader a cura di Muriel Lederman e Ingrid Bartsch (Routledge, New York, Londra 2001), nel dibattito on-line di Nature e in quello decennale di Science, come in tutta la letteratura ormai vastissima. Per riassumerla ed evitare così che le lettrici scoppino in lacrime, diciamo che in un secolo e mezzo di lotte femministe e femminili i progressi ci sono stati. Ancora troppo pochi. Rispetto al mondo della letteratura, delle arti, dove l’autorevolezza intellettuale e la creatività delle donne non sono più messe in discussione, il mondo scientifico è conservatore e pavido.Alle conferenze nazionali e internazionali su donne e scienza, c’è sempre qualcuno che muove obiezioni. “Perché vi stupite?” chiede. “Le donne non si fanno largo in nessuna attività competitiva, perché ve la prendete con gli scienziati e mai con i calciatori, i banchieri o i camionisti?” Colpa delle donne, troppo miti, poverine, e di una misoginia condivisa dal resto della società maschile.

Fatto sta che un calciatore non si vanta di rispettare, per formazione professionale, criteri di razionalità e oggettività. Fa infuriare le donne che si scontrano con i pregiudizi degli scienziati (e dei politici) l’abisso tra discorso ufficiale e comportamento collettivo. Come i borghesi dell’Ottocento che denunciavano scandalizzati l’immoralità dei proletari in nome di valori famigliari e frequentavano i bordelli, gli scienziati denunciano l’irrazionalità della plebe (vedi energia nucleare e Ogm) in nome di un sapere superiore, oggettivo e valido per tutti meno che per se stessi quando si tratta di riconoscere merito alle donne. Fosse solo per l’ipocrisia, pazienza. Ma rivela un’incoscienza – nel senso di assenza di consapevolezza di sé – che discredita la scienza, e innanzitutto le discipline biologiche.

Dalla pubblicazione su Nature (vol. 387, p 341, 24 maggio 1997) dell’articolo di Christine Wennerås e Agnes Wold, biologhe dell’università di Göteborg, si sa che gli esperti chiamati dal Consiglio svedese per la ricerca medica ad approvare i progetti finanziati con fondi pubblici applicano alle candidate un fattore di discriminazione del 2,6. Nel senso che le ricerche proposte da donne ricevono finanziamenti soltanto se ottengono un punteggio di 2,6 volte superiore a quelle proposte da uomini. L’effetto di questa prassi, diffusa ovunque e non solo nella Svezia delle pari opportunità, è stato da un lato la discriminazione, dall’altro il perpetuarsi fino a pochi anni fa di una ricerca medica scriteriata, proprio nel senso di priva di criteri oggettivi, per cui il corpo-standard era quello maschile. In Italia, su una rivista consacrata alle politiche sanitarie, nel 2001 si leggeva che “la medicina è un rapporto tra due uomini”. Non c’è da ridere. Non è un lapsus ma un dato di realtà, appena appena invecchiato.

Due esempi
Bernardine Healey aveva appena preso la direzione degli Istituti di Sanità americani (Nih) quando il collettivo femminista di Boston stava preparando una nuova edizione di Noi e il nostro corpo (G. Feltrinelli Editore, 1977 e successive ristampe), un manuale di anatomia e self-help per le donne. Judy Norsegian, del collettivo, telefona alla dottoressa Healey. “Scusi, ci darebbe una mano per aggiornare la parte sul cancro al seno?” Complimenti per l’ottimo lavoro, mi chiami Bernie, cosa vi serve? chiede la direttrice. “Sarebbe possibile parlare con qualche partecipante ai trial delle nuove terapie?” Normalmente no, ma forse sotto la supervisione dei nostri legali… Ora vedo se si può fare e la richiamo. Bernardine richiama. Si può a condizione che le donne del collettivo firmino un impegno alla riservatezza, meno male che la Marina statunitense è stata molto cooperativa. “La Marina?”, Judy è perplessa, all’epoca l’unica donna che le risulta appartenuta alla Marina statunitense è la compianta ammiraglia Grace Hopper, dirigente della Rand Corporation e massima esperta di linguaggi informatici. La stragrande maggioranza dei trial erano condotti con volontari uomini. Con una circolare del 1987, Bernardine cambia la situazione agli Nih, ma è del 1993 il decreto che costringe la Food and Drug Administration ad applicare le stesse regole alle aziende farmaceutiche.

Nel 1993, Vittorio Agnoletto, il medico che ha fondato la Lega italiana per la lotta all’Aids (Lila), viene convocato a Ginevra dall’Organizzazione mondiale della sanità, insieme ad altri volontari di associazioni europee simili alla sua (in La società dell’Aids, Baldini & Castoldi, 2000). Sul modello californiano, l’Oms ha organizzato un tavolo attorno al quale virologi, farmacologi, rappresentanti delle amministrazioni sanitarie, dei pazienti e dell’industria farmaceutica discutono e decidono su questioni legate agli esperimenti clinici, perché questi tengano conto dello stile di vita e dell’esperienza dei malati. Come spiegano Collins e Pinch nel Golem tecnologico (Edizioni di Comunità, 2000), il coinvolgimento dei diretti interessati ha reso rapide, efficaci e sensate le tappe conclusive delle ricerche. Sennonché a Ginevra, Agnoletto apprende che in Europa le volontarie sono escluse dai trial. Nessun esperto sembra a conoscenza del fatto che la sessualità non avviene unicamente tra uomini, o che perfino le ragazze a volte si bucano con una siringa usata. Grazie ad Agnoletto e altri, l’Oms cambia la situazione.

In questo caso, l’incoscienza maschile danneggia le pazienti; in altri tutta la scienza e la sua immagine pubblica. Prima di citare altri esempi, dobbiamo fare una piccola premessa. Noi non sappiamo se gli Ogm facciano bene o male ma solo che non sono né tutti uguali né tutti creati a scopo di lucro e perciò vorremmo che non tutti fossero considerati alla stregua del mais o della soia modificati dalle multinazionali agrobiotech.Come tutti, abbiamo letto i sondaggi europei e italiani secondo i quali il 35 per cento della popolazione ritiene che non ci siano geni nei pomodori che consuma abitualmente e non vuole che l’ingegneria genetica ce ne metta. Come tutti, pensiamo che la paura degli Ogm sia dovuta in parte a mobilitazioni politiche contro le strategie efferate delle multinazionali e degli Stati Uniti per accaparrarsi il mercato alimentare mondiale. Ma pensiamo che sia anche dovuta alla spensieratezza con cui i genetisti, complici i giornalisti, hanno annunciato per un ventennio di aver appena scoperto il gene del cancro al seno, dell’obesità, della schizofrenia, del divorzio o del pensiero. Hanno condiviso con l’opinione pubblica una visione nella quale i geni erano pianificatori e costruttori onnipotenti. Nessuna meraviglia quindi se ora l’opinione pubblica guarda con sospetto ai prodotti dalla loro manipolazione.

I genetisti hanno propagandato questa visione presuntuosa non solo in cerca di fama e di fondi ma credendoci, per un determinismo e per una misoginia che nulla avevano a che fare con il metodo scientifico.Dopo la pubblicazione nel febbraio scorso della mappa del genoma, sono diventati più cauti. Era ora. Prima soltanto Richard Lewontin (in Biologia come ideologia, Bollati Boringhieri, e Gene, organismo, ambiente, Laterza-Fondazione Sigma-Tau) e pochi altri, progressisti guarda caso, prendevano le distanze da tanta sicumera. Tra i critici c’era Evelyn Fox Keller, la biomatematica ed epistemologa americana, autrice di Sul genere e la scienza (Garzanti, come i due saggi che seguono). In The Century of the Gene (Harvard University Press, Cambridge 2000, di prossima pubblicazione in Italia) completa la critica iniziata con Vita, scienza e cyberscienza all’ideologia del gene onnipotente propinata dai fautori del Progetto Genoma Umano e mostra come i risultati conseguiti proprio dal Progetto la rendano obsoleta.

The Century of the Gene elenca i vicoli ciechi imboccati storicamente dai genetisti. E’ emblematico James Bonner che nel 1965 pubblica un trattato sull’embriogenesi, The Molecular Biology of Development (Oxford University Press). Bonner è un protagonista della biologia molecolare, disciplina recente a quei tempi, e ci si aspetta che abbia un punto di vista nuovo. A proposito dello sviluppo dell’embrione, Bonner ne colloca il programma genetico nel nucleo dello spermatozoo. Nella forma, è una novità: riprende l’espressione programma genetico introdotta quattro anni prima da François Jacob e Jacques Monod. Nella sostanza, non lo è: sostiene che l’ovulo sia un recipiente inerte. Dopo duemila e passa anni, Bonner prende ancora per buona la tesi che Eschilo, nelle Eumenidi, attribuisce ad Apollo: “Non è colei che ha partorito, la madre del bambino che si dice sia stato da lei stessa generato: ella ha solo nutrito il seme che le è stato insediato. Vero creatore è colui che ha cosparso il seme.” Bonner aveva cancellato l’ambiente cioè l’ovulo e il corpo materno. Né lui né i signori che per più di cent’anni hanno dominato la genetica volevano rinunciare al potere illusorio di determinare con il proprio seme la discendenza, liberi poi di scordarsela appena finito di seminare.

Una seconda obiezione sollevata ogni volta che si parla di discriminazione è all’incirca questa: “anche se le donne potessero fare ricerca come vorrebbero, il risultato non cambierebbe”. Invece cambia. Ipazia, un gruppo femminista di riflessione sulla scienza nato all’inizio degli anni Novanta, si era dato per motto una frase mutuata della filosofa Simone Weil: “Il latte viene dalle poppe, ma è la mucca intera che lo fa”. Non si guarda allo stesso modo con un corpo e quindi un’esperienza di donna. Finché scimpanzé, gorilla, oranghi sono stati studiati da primatologi, le femmine erano descritte come passive e marginali per la vita del branco. Dagli anni Settanta, le primatologhe – Dian Fossey, Jane Goodall, Sarah Blaffer Hrdy, Birute Galdikas, Barbara Smuts e centinaia di altre meno note -hanno costretto i colleghi a rinunciare a dogmi e miti che ne confortavano i pregiudizi sulle femmine umane ma non riflettevano i comportamenti degli altri primati.

Però le scienze della vita sono “molli”, obiettano gli scettici, sono influenzate dalla società e dalla cultura circostante mentre in fisica E sarà sempre uguale a mc2. Forse, ma non è detto e non è una ragione sufficiente per impedire alle donne di verificarlo. All’assemblea delle scienziate convocate dalla Commissione europea a Bruxelles nell’aprile 2000, ministri e parlamentari hanno suggerito motivi strumentali per promuovere donne in posti di grande visibilità e responsabilità nelle scienze dure, (oltre al principio del merito al quale gli uomini si appellano per promuoversi e premiarsi tra di loro). Fisica e astronomia, dicevano, richiedono strumenti follemente costosi che devono essere pagati dai governi, dato il disinteresse del mercato (finché non trova il modo di brevettare la fluttuazione quantistica foriera di un Big Bang?). Le indagini sull’origine dell’universo o della materia non hanno ripercussioni immediate sul benessere della cittadinanza o quando ne hanno avute erano sotto forma di armi nucleari. Sollecitata a versare il suo obolo, l’opinione pubblica dei paesi ricchi potrebbe reagire con un “no grazie, ho già dato”. Si è cercato di convincerla che senza le missioni sulla Luna non ci sarebbe il teflon. Non ci casca più: tanti miliardi gli sembrano troppi per una padella che non attacca. Eppure le si chiede di sovvenzionare i giocattoli lunghi svariati chilometri che i fisici costruiscono per acchiappare una particella o un’onda che forse non esiste. Se è informata, l’opinione pubblica potrebbe scegliere, con quei soldi, di cancellare il debito di parecchi paesi africani o di finanziare ricerche sul cancro o l’Alzheimer, sulla molecola che fa ricrescere i capelli o su quella che cancella le rughe. Nella fisica fondamentale, l’ostinazione degli uomini a sbarrare la strada alle donne sarebbe pertanto autolesionista.

Nell’era della comunicazione un volto femminile renderebbe un po’ più umano perfino un megacollisore di particelle. Oltretutto, lo stereotipo per cui le donne sono pignole sulle questioni di sicurezza e parsimoniose anche con i soldi altrui porterebbe i contribuenti ad allargare più volentieri i cordoni della borsa. L’argomentazione dei politici della ricerca ha lasciato le 350 scienziate presenti a Bruxelles piuttosto perplesse. Non sembrava loro giusto sfruttare così gli stereotipi di genere, col rischio di rafforzarli. Altre sostenevano che non andava negata la realtà: la lunga storia di oppressione e di ruolo subordinato ereditato dalle donne continua a esprimersi in una maggiore cura del benessere altrui e in una gestione più attenta dell’economia, dovuta anche alla storica assenza di un patrimonio da scialare. Altre ancora erano contrarie, deprecavano i “fiori all’occhiello” o gli “specchi per le allodole” e reclamavano una politica che non fosse soltanto di immagine. Sembra d’accordo il Commissario europeo alla ricerca Philippe Busquin, che ha incaricato l’osservatorio su donne e scienza del suo gabinetto di diffondere gli esempi di pratiche corrette e di segnalare quelle che non rispettano le regole non discriminatorie stabilite dai trattati europei.

La resistenza degli uomini al cambiamento, alla condivisione del potere e delle luci della ribalta, è talmente forte che perfino un fiore all’occhiello, nella sua solitudine, può risultare intollerabile. Dan Golding, il direttore dell’Agenzia spaziale americana, era molto seccato dall’attenzione che i mass media dedicavano a Donna Shirley, la responsabile della missione Pathfinder. Golding aveva un bel chiamare i giornalisti a incontri ravvicinati, accompagnarli di persona in visite guidate nei capannoni, appena potevano le reti televisive invitavano la signora Shirley. In parte perché speravano in qualche incidente piccante: si mormorava di sue divergenze con gli ingegneri del Jet Propulsion Laboratory. Non funzionavano i retrorazzi che dovevano frenare la Pathfinder durante la discesa verso Marte, gli ingegneri volevano progettarne di nuovi, e chiedevano più tempo e più soldi. Lei ci teneva a rispettare il budget e la scadenza, 4 luglio 1997, giorno della festa nazionale, se possibile con immagini decenti in tempo per i telegiornali. Sulle divergenze tacque da signora finché rimase a capo del Mars Exploration Program, poi scrisse Managing Martians, (Broadway Books, New York, 1999) e spifferò tutto sui fallocrati della Nasa e dintorni. “Ma che cos’ha che io non ho?” si era lamentato Golding, all’epoca in cui scalpitava nel ruolo del principe consorte. Al che un giornalista della Cnn gli rispose: “Un tailleur rosso e un sorriso pronto”. Speriamo che fosse una battuta.

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