I velocisti dell’evoluzione

La nostra specie si sta evolvendo molto più in fretta di quanto ma avvenuto prima: le mutazioni del Dna entrate a far parte del patrimonio genetico si sarebbero verificate, negli ultimi cinquemila anni, a un ritmo cento volte superiore rispetto a qualsiasi altro periodo della nostra storia. Secondo i ricercatori dell’Università del Wisconsin Medison che hanno condotto lo studio, noi saremmo quindi geneticamente molto più distanti dai nostri avi dell’età della pietra di quanto loro non fossero rispetto ai Neanderthal.

La ricerca è stata pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas) e deriva dall’analisi dei dati raccolti dall’HapMap project, il programma internazionale che si propone di studiare la variabilità genetica umana e che sta catalogando i polimorfismi, ovvero le differenze individuali a livello delle singole basi azotate del Dna (Snp, single nucleotide polymorphisms). Finora il progetto ne ha mappati quattro milioni, sui dieci milioni stimati.

Il perché di questa spinta evolutiva lo conosceva già Charles Darwin, circa 150 anni fa: tanto più grande è una popolazione e tante più probabilità ha di sviluppare e fissare varianti genetiche. Un dato che ora è stato possibile verificare nell’essere umano per la prima volta. Per lo studio sono state considerate zone del genoma, dette Linkage disequilibrium (Ld), in cui le stesse mutazioni si riscontrano troppo spesso perché l’associazione sia dovuta al caso, lasciando presupporre che apportino un qualche vantaggio. “Poiché il Dna è soggetto a continua ricombinazione, le sequenze Ld si perdono velocemente con le generazioni”, spiega John Hawk che ha condotto lo studio: “Trovarle condivise tra molti individui è quindi una forte evidenza di un recente adattamento”.

Fino ad ora i ricercatori hanno trovato le prove di una evoluzione recente su circa 1800 geni, il 7 per cento del genoma. Molte di queste nuove modifiche sarebbero legate al cambiamento della dieta con l’avvento dell’agricoltura e alla resistenza alle malattie infettive. La spinta verso cambiamenti fisici per la sopravvivenza si sarebbe invece notevolmente ridotta. (t.m.)

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