“L’oligopolio dell’editoria scientifica nell’era digitale”: si intitola così il paper su Plos One che documenta il controllo del mercato delle pubblicazioni scientifiche da parte di poche case editrici. Cinque per la precisione: Reed Elsevier-, Springer, Wiley-Blackwell, Taylor & Francis, e Sage Pubblication. Ma chi sono? Conosciamole meglio.
Colossi dell’editoria, come si intuisce, divenuti tali grazie a fusioni e acquisizioni. Insieme controllano complessivamente oltre il 50% (percentuale riferita al 2006) delle pubblicazioni scientifiche nel campo delle scienze naturali, mediche, sociali ed umanistiche. Lo dice Vincent Larivière dell’Università di Montreal in Canada, primo firmatario del paper che, con altri due colleghi, Stefanie Haustein, e Philippe Mongeon ha analizzato tutti gli articoli scientifici indicizzati sul Web nelle principali banche dati scientifiche e pubblicati tra il 1973 e il 2013: 45 milioni di documenti.
Quasi tutto, come accennato, pubblicato da pochi, sebbene alcune discipline sembrano sfuggire al controllo totale di questi editori. Secondo i dati di Larivière, la ricerca biomedica, la fisica, le arti, le scienza umanistiche sono gli ambiti che rimangono fuori ed è questo, probabilmente, che giustifica il numero di libri e riviste cartacee che le diffondono e il più lento passaggio al formato digitale, sostengono gli autori.
Per quel che riguarda le vendite, il mercato è grande, fanno sapere i ricercatori, con margini di profitto di circa il 40%. E a spiegare la straordinaria reddittività di questo settore contribuiscono diversi fattori, racconta Larivière: gli editori non sostengono alcun costo per avere gli articoli che sono liberamente forniti dalla comunità scientifica. Inoltre, hanno il monopolio sul contenuto delle riviste che, in formato digitale, possono essere pubblicate come unica copia il cui accesso viene venduto poi a più acquirenti.
Pur riconoscendo il ruolo fondamentale storicamente avuto dagli editori nella diffusione della conoscenza scientifica nell’epoca della carta stampata, Larivière si interroga sul senso della loro esistenza oggi, nell’era digitale. E ricorda che anche la comunità scientifica ha iniziato a protestare contro le pratiche commerciali dei maggiori editori e cita la campagna “Il costo della conoscenza”, una petizione finalizzata a muovere opposizione contro le pratiche commerciali di Elsevier. Le richieste? Prezzi inferiori per le riviste e la promozione dell’open access all’informazione. I risultati prodotti da questa protesta sono però limitati, sostiene Larivière, perché le riviste sono una fonte scientifica importante e, fino a quando la pubblicazione su quelle con più alto impact factor continuerà ad essere requisito necessario ai ricercatori per la costruzione della carriera accademica, il finanziamento della ricerca e il riconoscimento tra pari, i principali editori continueranno a mantenere la loro influenza sul sistema di pubblicazione della produzione scientifica.
Vero è che i grandi editori dispongono di risorse e infrastrutture che facilitano la pubblicazione e la diffusione delle riviste scientifiche e che questo potrebbe far pensare che l’acquisizione di una rivista da parte di un grande editore ne aumenti la visibilità. Ma non è proprio così in effetti. Lo studio condotto da Larivière e dai suoi colleghi dimostra, infatti, che non vi è alcun evidente e significativo aumento in termini di impact factor della rivista che da un piccolo editore passa a uno grande e, con i risultati ottenuti mette addirittura in dubbio il valore aggiunto dei grandi editori.
I servizi forniti alla comunità scientifica da questi colossi dell’editoria giustificano la quota crescente di bilanci universitari stanziata per la diffusione dei risultati della ricerca scientifica, attraverso le quote pagate per accedere alla pubblicazioni? È questo, in fondo, il nocciolo della questione per gli autori dello studio.
Riferimenti: Plos One DOI: 10.1371/journal.pone.0127502
Credits immagine: Nic McPhee/Flickr CC
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