Negli anni Ottanta si contavano sulla punta delle dita di una mano, oggi sono circa 160. L’esplosione delle industrie biotecnologiche in Israele ha interessato diversi settori: dalla farmaceutica alla diagnostica, dalla bioinformatica all’agricoltura. Con un aumento considerevole della forza lavoro impiegata: dai 400 impiegati del 1988 ai 4.000 attuali. Un’attività che produce merce per l’80 per cento esportata. Prodotti fra cui figurano anche le cellule staminali embrionali. Già, perché in Israele i genetisti possono lavorare sugli embrioni soprannumerari e produrre così linee di coltura. Che poi esportano nel mondo. Così Josef Itskovitz-Eldor, del Rambam Medical Center a Haifa, nel 1998 ha potuto fornire a James Thomson, dell’Università del Wisconsin, gli embrioni dai quali sono state ricavate quattro delle cinque linee di staminali umane pluripotenti prodotte per la prima volta in un laboratorio statunitense. E dal laboratorio di Thomson le cellule israeliane sono arrivate fino all’Advanced Cell Technology, l’impresa biotech statunitense che ha annunciato poche settimane fa la prima clonazione umana.
Operazioni possibili dal momento che la legge biblica ebraica e il Talmud, a differenza di quanto fa la Chiesa Cattolica Romana, non conferiscono lo status di essere umano al feto già nel momento dell’inseminazione. “Per certi aspetti, il feto può essere considerato una parte del corpo della madre”, afferma Michel Revel direttore del centro di genetica molecolare dell’Istituto Weizmann e presidente della commissione per la bioetica dell’Accademia delle scienze israeliana. “Secondo la legge ebraica il materiale genetico fuori dall’utero non ha status legale, dal momento che non è una parte di un essere umano fino a quando non è nel grembo materno. In più, anche una volta nell’utero, solo dopo i primi 40 giorni l’embrione acquisisce lo status di feto umano formato”. Lo status dell’embrione fuori dal grembo è simile quindi a quello dei gameti, dello sperma e degli oociti: non devono essere sprecati, ma possono essere manipolati per scopi terapeutici.
Tanto più, come sottolinea anche il documento prodotto dalla commissione presieduta da Revel, che la tecnica di fertilizzazione in vitro prevede proprio che si creino embrioni in numero superiore a quelli poi effettivamente impiantati nell’utero materno. “Questi diventano embrioni soprannumerari pre-impianto senza nessuna potenzialità di svilupparsi in un essere umano e possono essere utilizzati per scopi ragionevoli, come quello di produrre cellule staminali”. Dal momento che per la religione ebraica il materiale genetico per la ricerca sulle cellule staminali può essere procurato in maniera accettabile, la tecnologia che si utilizza è altrettanto accettata. “Essa è infatti “moralmente neutrale”, cioè acquista valore morale sulla base dell’utilizzo che se ne fa”, spiega Revel. Sdoganate dalle implicazioni morali, le cellule staminali embrionali possono diventare oggetto di ricerca e di guadagno per le imprese biotecnologiche, “ma sempre con un occhio attento alla giustizia sociale e alla tutela dei più deboli”, conclude Revel.
Il piccolo stato d’Israele è diventato così un colosso delle biotecnologie. Le vendite in questo settore sono aumentate del 33 per cento nel 2000, arrivando a 800 milioni di dollari. Un esempio di successo biotech israeliano è quello dell’Interferone-beta prodotto da InterPharm. Grazie a una tecnologia che fa esprimere geni umani in una coltura di cellule di mammifero, l’azienda ha prodotto un farmaco contro la sclerosi multipla registrato in 40 Paesi con un fatturato di 254 milioni di dollari all’anno. E per il futuro il Ministero della ricerca e tecnologia ha già fatto presente al governo di aver bisogno di 450 milioni di dollari, per consolidare la posizione di rilievo che Israele ha guadagnato sulla scena internazionale.