Il Dna sul luogo del delitto

    Siamo sulla scena del delitto. La polizia scientifica va alla ricerca di tracce lasciate dall’assassino, trova un capello e grazie a un piccolo strumento portatile in pochi secondi è in grado di ricostruire il profilo genetico della persona e di confrontarlo con la banca dati dell’Interpol. Uno scenario che tra pochi anni potrà divenire realtà, grazie alla collaborazione tra l’Università di Urbino, l’Università di Roma Tor Vergata e il Ministero dell’Interno, coinvolti in un progetto finanziato dall’Unione europea. Nacbo (Novel and improved nanomaterials, chemistries and apparatus for nanobiotechnology) è infatti tra i 14 progetti selezionati dall’Ue (tra i 470 pervenuti) nel settore delle nanotecnologie. “Siamo molto orgogliosi del successo della nostra proposta”, dice Giuseppe Novelli, docente di genetica all’Università Tor Vergata di Roma e all’Arkansas University e coordinatore della ricerca, “che è l’unico progetto italiano di nanotecnologie a essere stato selezionato. È anche una conferma, e ci tengo a dirlo, che la ricerca italiana non è così indietro come spesso si dice”.I chip a Dna – a differenza di quelli a Rna che studiano l’espressione dei geni e sono divenuti ormai strumenti di routine, soprattutto in campo diagnostico – sono più complessi, perché devono fare i conti con le variazioni della sequenza genetica che caratterizzano e rendono unico il genoma di ciascuno di noi. Questi polimorfismi, pur riguardando solo una esigua percentuale del genoma, sono determinanti nel tracciare il profilo genetico di un individuo. “Si tratta di differenze fondamentali quando parliamo di Dna forense”, sottolinea Novelli, “che possono dar luogo a errori che pregiudicano l’andamento delle indagini”. Di analisi del Dna errate non mancano esempi: molti ricorderanno, il caso del barista di Liverpool accusato dell’omicidio di una ragazza a Castiglioncello, in Versilia, nell’estate del 2002 proprio sulla base dei test genetici fatti sulle tracce biologiche. Una prima comparazione sulla base di otto regioni del Dna aveva mostrato una sovrapposizione tra i due profili, poi smentita però da un esame più accurato. “Il microchip a Dna”, assicura Novelli, “permetterà di raggiungere un’accuratezza e una sensibilità assoluta, analizzando centinaia di singole variazioni del genoma”.Un chip di questo tipo è composto da un supporto solido sul quale vengono fissati migliaia di molecole (oligonucelotidi di Dna) che funzionano come delle sonde in grado di riconoscere le sequenze di Dna complementari e fornire il profilo genetico dell’individuo al quale il campione biologico esaminato appartiene. “L’aspetto sul quale si concentra il progetto”, spiega Novelli, “sono i metodi di fissaggio dei nucleotidi e la scelta del materiale (silicio, diamante oppure oro) che deve fungere da supporto solido. Bisogna indagare insomma una chimica innovativa, un compito proprio delle ricerche nanotecnologiche”. Ma l’ambito forense non è l’unico coinvolto nel progetto Nacbo: la somministrazione mirata di farmaci tramite i globuli rossi è un altro degli obiettivi sul quale lavorerà il gruppo italiano. Nacbo potrà godere, nell’arco di cinque anni, di un finanziamento complessivo di 21 milioni di euro, ai quali contribuiranno anche alcune grandi imprese tecnologiche europee coinvolte nello sviluppo tecnico. Le ricerche sul chip dovrebbero partire entro l’estate: a lavorarci, oltre ad alcuni ricercatori di Tor Vergata, saranno anche gli scienziati della Criminalpol.

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