Categorie: Vita

Il materiale che si autoriproduce

Di materiali che promettono di autoripararsi si sente vociferare ormai da qualche anno. Ma questo di cui si parla oggi su Nature è diverso da tutti gli altri: più che rappezzarsi, infatti, potrebbe essere in grado di rigenerarsi come fosse un vero e proprio organismo vivente. In pratica, potrebbe comportarsi come una lucertola che si fa ricrescere la coda.

Siamo ancora molto lontani da tutto ciò, ma la ricerca, frutto del lavoro di chimici e fisici della New York University (Usa), dimostra che si è sulla buona strada. Per ora, gli scienziati hanno creato un dna artificiale in grado di replicarsi da solo. Per capire cosa sia stato fatto esattamente bisogna ricordare che in natura il dna è formato da due filamenti appaiati e avvolti in una doppia elica. L’appaiamento non è casuale, ma dipende dalla disposizione delle quattro unità fondamentali del dna, chiamate nucleotidi: adenina (A), guanina (G), timina (T) e citosina (C). Queste unità devono appaiarsi due a due secondo regole di complementarietà: A con T, C con G.

Il dna artificiale creato nei lab della Nyu è completamente diverso, ma si basa sullo stesso concetto di complementarietà. Invece di usare solo 4 nucleotidi, i ricercatori ne hanno scelti 7 e, invece di avvolgere solo 2 filamenti, ne hanno intrecciati 4 in una struttura che nel complesso presenta 3 doppie eliche. Questa molecola, chiamata Btx (dall’inglese Bent triple helix) è in grado di legarsi a un’altra Btx complementare, in una configurazione molto complessa di 10 doppie eliche in tutto (tre della prima Btx da una parte, 3 della seconda Btx dall’altra, raccordate da altre 4 doppie eliche più corte). In questo modo, le combinazioni possono essere migliaia.

A questo punto, per arrivare a un ipotetico materiale auto-rigenerante era necessario disporre di una sequenza di Btx che potesse replicare se stessa in modo perfetto. Ecco come hanno proceduto i ricercatori: hanno creato una prima struttura di 7 Btx definita progenitrice e l’hanno posta in una soluzione chimica contenente altre singole Btx; la progenitrice ha allora dato il via all’assemblaggio di una nuova sequenza di Btx a lei complementare: la figlia; a quel punto le due sequenze sono state separate attraverso shock termico (riscaldando la soluzione a 40°C) e la figlia è stata riutilizzata per promuovere l’assemblamento di un’altra sequenza a lei complementare, la nipote, che, giocoforza, era identica alla progenitrice.

Quello messo a punto dagli scienziati è dunque un processo di replicazione a tutti gli effetti, anche se di naturale c’è ben poco: non lo è il materiale genetico, né l’apparato molecolare necessario al processo (per esempio gli enzimi).

“Questo è il primo passo verso la creazione di materiali autoreplicanti di composizione arbitraria”, ha commentato Paul Chaikin, uno degli autori dello studio: “Il prossimo obiettivo sarà una replicazione che non duri solo per poche generazioni, ma abbastanza a lungo da favorire una crescita esponenziale”.

In effetti, per ora il processo funziona grazie alle manipolazioni chimiche e termiche innescate dall’esterno e ha una durata limitata. Indubbiamente, però, per la prima volta è stato dimostrato che la capacità di autoreplicarsi non è esclusiva di molecole biologiche come dna e rna, ma può appartenere anche a strutture artificiali che possono, in teoria, assumere forme e caratteristiche funzionali diverse.

Via: Wired.it

Martina Saporiti

Laureata in biologia con una tesi sui primati, oggi scrive di scienza e cura uffici stampa. Ha lavorato come free lance per diverse testate - tra cui Le scienze, Il Messaggero, La Stampa - e si occupa di comunicazione collaborando con società ed enti pubblici come l’Accademia dei Lincei.

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