Il mercato della scienza

“L’Appello per la libertà di ricerca firmato dai premi Nobel Rita Levi Montalcini e Renato Dulbecco insieme ad altri 1500 scienziati suonava come: dateci i fondi e lasciate fare a noi. Come se non fosse necessario un controllo democratico e pubblico sulla ricerca scientifica; come se la ricerca avesse nulla a che fare con la società. E come se non fosse vero che le loro scoperte verranno poi coperte da brevetti in grado di assicurare profitti”. È la denuncia di Andrea Capocci ricercatore in econofisica (le leggi della fisica applicate all’economia) all’università di Friburgo. Una denuncia lanciata nel corso del dibattito “Biotecnologie e brevetti contro la libertà di ricerca”, organizzato dal Laboratorio autonomo scienza epistemologia ricerca (Laser) lo scorso 14 marzo all’Università La Sapienza di Roma. L’incontro è stata l’occasione anche per presentare la traduzione italiana di “Ingegneria genetica. Biotecnologie tra scienza e business”, libro della biologa “dissidente” Mae-Wan Ho, in uscita a fine mese per DeriveApprodi.

Intorno al tavolo Sabina Morandi, scrittrice e giornalista scientifica nonché curatrice del volume, Gilberto Corbellini, ricercatore di storia della medicina allo stesso ateneo romano, Ivan Verga, rappresentante dell’associazione Verdi Ambiente e Società, e appunto Andrea Capocci. Centrata sul problema dei brevetti in ambito scientifico e sociale, con un esplicito richiamo all’Appello per la libertà della ricerca, l’iniziativa ha però sofferto dell’assenza di ricercatori e scienziati tra il pubblico (cui sono invece accorsi numerosi studenti), a dimostrare ancora una volta quanto sia difficile far passare all’interno della comunità scientifica messaggi che non siano direttamente legati alla richiesta di finanziamenti.

Eppure i temi dibattuti sono di stretta attualità. Come la tesi di Mae-Wan Ho: l’aumento della resistenza dei batteri agli antibiotici è uno dei maggiori problemi della medicina odierna e dimostra la capacità di alcuni organismi di mutare in modo “orientato”, adattandosi rapidamente alle nuove condizioni ambientali. Ma che questo mutamento avvenga in modo “lamarckiano” (come sostiene la Ho), per esempio tramite diretto passaggio di geni da un organismo all’altro, è assolutamente controverso. Rimane comunque il pericolo di ripetere su scala mondiale l’errore fatto con gli antibiotici, tramite l’immissione rapida e indiscriminata di agenti selettivi nuovi (per esempio piante geneticamente modificate per produrre tossine contro i parassiti) le cui conseguenze sono imprevedibili e potrebbero essere molto più rapide di quel che si pensa attualmente. A queste tesi risponde Corbellini: “Se le biotecnologie sono l’unico mezzo che noi occidentali abbiamo per combattere la fame nel mondo, aumentando la produzione e le rese agricole, oppure il miglior modo per curare malattie oggi mortali, allora un’opposizione pregiudiziale al biotech finisce per essere ipocrita ed egoista”.

Ma il problema, spiega Ivan Verga, è il paradigma biotech: il quadro di riferimento per l’azione di grandi imprese multinazionali attuato attraverso gli accordi internazionali interni alla World Trade Organization. Inoltre “è ormai certo che le biotecnologie agroalimentari sono inutili ai fini dell’aumento della produzione, o anche solo del benessere degli stessi agricoltori o dei consumatori”, prosegue l’ambientalista. “Si capisce come il rifiuto vada quindi orientato non tanto verso le biotecnologie in quanto tali, quanto contro il paradigma, scientifico, economico, sociale che le accompagna. Laddove l’uso di queste tecnologie si rivelasse utile (come per esempio in ambito medico), verrebbero a cadere le opposizioni”. Ancora una volta, si rivela centrale il ruolo del sistema dei brevetti, non a caso ormai regolati da una serie di accordi sovranazionali (Trips, Trade Related Intellectual Property System): è questo che rende impossibile, qui e ora, pensare a un biotech vantaggioso per tutti, non solo per le aziende in cerca di profitti.

Si ritorna quindi all’intreccio ormai profondo fra scienza e business. “E’ necessario intervenire sul sistema dei brevetti per assicurare una politica della ricerca che sia realmente democratica e nell’interesse di tutti”, ha affermato ancora Capocci. D’altra parte, in diversi ambiti, il sistema del copyright si sta dimostrando antisociale. Per esempio in ambito informatico, lo sviluppo del free software dimostra che l’innovazione tecnologica non è necessariamente dipendente dai brevetti. “Anche in ambito biologico”, ha sottolineato Corbellini, “gli strumenti conoscitivi a nostra disposizione faranno presto saltare il sistema dei brevetti per quel che riguarda le sequenze geniche”. La stessa sequenza potrà infatti essere ritrovata in diversi organismi, e quindi passibile di più di un brevetto. Il concetto stesso di proprietà intellettuale viene quindi a cadere.

Il “popolo di Seattle” o i contadini del Karnataka (che da anni in India si oppongono in modo più o meno pacifico all’invasione biotecnologica e alla biopirateria), o la comunità che sviluppa il software Linux diventano quindi sintomatici di un nuovo modo di fare politica, nel quale è la stessa azione diretta dei popoli, non più mediata dalle forme usuali della democrazia occidentale, a rivendicare il diritto di ognuno di vivere una vita che sia dignitosa, secondo la propria cultura, nel luogo scelto.

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