Il nucleare si fa il lifting

È arrivato fino a Johannesburg, in Sud Africa, il vento di rinascita nucleare che da qualche mese soffia in Europa e negli Stati Uniti. Non è una novità che i rappresentanti delle grandi compagnie nucleari come la General Electrics, la Hitachi, la Tepco o la Westinghouse si presentino ai summit internazionali. Infatti, da quando nell’agenda delle priorità politiche c’è la riduzione dell’emissione di gas serra, il nucleare viene da più parti riproposto come un’alternativa efficiente agli idrocarburi. È nuovo, invece, l’atteggiamento della classe politica. Durante il recente summit sullo sviluppo sostenibile David Graham, un membro della delegazione americana, ha suggerito di preferire alle energie rinnovabili, “troppo care”, quelle “meno costose e altrettanto pulite”. D’altra parte, Paul Nielson, Commissario europeo per lo sviluppo, ha affermato che l’Europa aiuterà i paesi africani che intendessero impiantare centrali nucleari. Precedentemente, il presidente Usa George Bush jr e la responsabile per il Trasporto e l’Energia della Commissione Europea Loyola de Palacio avevano fatto affermazioni dello stesso tenore. Per ora si tratta soltanto di dichiarazioni ma è alta la probabilità che si convertano in azioni concrete. Il ricorso al nucleare è allettante: ai paesi che aderiscono al Protocollo di Kyoto, l’energia atomica consentirebbe infatti di soddisfare gli impegni presi senza dover modificare radicalmente il profilo dei consumi energetici. Ma esistono anche altre motivazioni che, per il momento, sono rimaste inespresse. Il nucleare potrebbe allentare la tensione, geopolitica oltre che economica, che pervade il mercato del petrolio e ridurre la dipendenza quasi esclusiva dell’Occidente da una risorsa che, nell’arco di un decennio, sarà quasi totalmente concentrata in Medioriente. In più, l’uranio non dovrebbe presentare i problemi del petrolio perché è distribuito in numerose regioni del pianeta e, se ben utilizzato, è virtualmente inesauribile (1 chilogrammo di materiale fissile produce energia equivalente a 1.800 tonnellate di petrolio). Una riconversione massiccia verso l’energia atomica, però, potrebbe non essere la panacea che alcuni si aspettano. Innanzitutto gli aspetti economici. La costruzione di una centrale ha costi considerevoli e tempi lunghi, al punto che spesso a lavori finiti la tecnologia utilizzata risulta già obsoleta. Nel contesto di un mercato dell’energia liberalizzato, un prodotto del genere è scarsamente competitivo. È per questo motivo che il ritorno al nucleare perseguito dall’amministrazione Bush potrebbe ridursi a una semplice ristrutturazione delle centrali già esistenti, per allungarne il tempo di vita dai 40 ai 60 anni. Anche sul piano tecnologico c’è della strada da fare, come ha ricordato qualche giorno fa Carlo Rubbia sul Corriere della Sera. Lo scienziato auspica un nuovo atteggiamento verso il nucleare, cui prima o poi si dovrà far ricorso necessariamente. E, per questo, è necessario l’impegno della ricerca. Su questo concorda Carlo Bernardini secondo il quale “le centrali di quarta generazione cui sta lavorando un consorzio internazionale dovrebbero essere sicure non solo ‘probabilisticamente’, ma ‘deterministicamente’”. Questo significa che un evento del tipo di quello di Chernobyl non dovrebbe essere solo “altamente improbabile”, bensì che ci dovranno essere dei dispositivi preposti a contenerlo. Un altro problema da risolvere sarebbe quello delle scorie radioattive. Per ridurre effettivamente la produzione di gas serra attraverso il nucleare, si dovrebbe impiantare una parco di centrali abbastanza numeroso. Conseguentemente la produzione di scorie aumenterebbe dalle attuali 8.000 tonnellate all’anno a 100.000 tonnellate all’anno nel 2050 (stima di Rubbia). Lo stoccaggio di una tale massa di rifiuti per le centinaia di anni necessari perché decadano richiederebbe troppo spazio. Per ovviare a questo problema la ricerca si sta orientando verso lo sviluppo di tecniche per ridurre il tempo di decadimento.

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