Il papà della provetta

“Una volta la fecondazione in vitro faceva scandalo. Oggi, in paesi industrializzati come l’Olanda, la Danimarca o la Francia, un bambino su cento nasce grazie a queste tecniche. Abbiamo fatto molta strada, ma ne resta ancora molta da fare”. Non è certo mancanza di entusiasmo, quella di Robert Edwards, “padre” indiscusso della fecondazione in vitro o Fiv, oggi forse la più diffusa tecnica di fecondazione assistita. L’occasione, anzi, invita alla celebrazione: perché Louise Brown, la prima bambina concepita “in provetta” all’ospedale di Oldham, nel nord dell’Inghilterra, grazie agli sforzi di Edwards e del suo collega, il ginecologo Patrick Steptoe, sta per compiere 20 anni. Robert Edwards è stata dunque la star indiscussa del convegno organizzato di recente a Londra per fare il punto sul futuro della fecondazione assistita vent’anni dopo.

L’incontro londinese rappresenta insomma un bel successo per un uomo che vent’anni fa doveva combattere per riuscire a far pubblicare i suoi lavori sulle riviste scientifiche. Eppure Edwards non è in vena di celebrazioni. E con perfetto aplomb britannico, passati velocemente in rassegna i successi, si sofferma sulle cose che non vanno ancora bene: “Le tecnologie attuali”, esordisce, “sono troppo costose, il che significa che molte coppie non hanno la possibilità di ricorrervi”. Un’obiezione naturale in un uomo che ricorda con orgoglio il suo passato di militante laburista. Che gli ha creato non pochi problemi: “Quando io e Steptoe abbiamo cominciato, non avevamo nessun finanziamento pubblico. L’unico modo per lavorare era aprire una clinica privata: ma i laburisti di solito non fanno una cosa del genere”, racconta.

Ma questa è solo la punta dell’iceberg. Il problema vero è che la Fiv è ancora un intervento impegnativo: “la stimolazione ovarica che viene praticata è sempre più aggressiva, fino a trasformarsi in un vero e proprio nonsense farmacologico”, polemizza Edwards. “Dobbiamo individuare trattamenti più semplici, e personalizzati secondo le esigenze di ciascun paziente. E puntare su risultati concreti: oggi impiantando tre ovuli si ha una possibilità di ottenere una gravidanza che arriva al 25 per cento. Si può fare molto di più, e i farmaci di nuova generazione, come i GnRH antagonisti, offrono buone opportunità in questo senso”.

Il fatto è, sostiene il medico, che dei processi riproduttivi sappiamo ancora troppo poco: “siamo arrivati sin sulla Luna, ma ancora non conoscevamo il funzionamento esatto del meccanismo dell’ovulazione”. Tutte informazioni preziose che non servono solo per la fecondazione assistita: “conoscere meglio il processo di sviluppo degli embrioni è utilissimo per mettere a punto nuovi metodi contraccettivi, ma anche per prevenire malformazioni”.

Qualche perplessità suscita invece in Edwards il crescente ricorso all’Icsi – una tecnica innovativa grazie alla quale si inietta un singolo spermatozoo all’interno dell’ovocita. Non si tratta di pregiudizio – ” una delle mie figlie”, precisa il medico, “aspetta un bambino concepito proprio grazie a questo metodo, ma è necessario controllare attentamente l’embrione per evitare possibili rischi di malformazioni genetiche. Anche se, in prospettiva, proprio grazie a questo metodo si potrebbe pensare a portare informazioni genetiche all’ovocita per migliorare le possibilità di impianto”.

Ma le novità più interessanti, secondo Edwards, dovrebbero venire proprio dallo studio dell’embrione e dell’interazione tra questo e la mucosa uterina. Con uno sguardo a un futuro anche più lontano – “Perché non parlare anche di clonazione?”, azzarda il medico, incurante del brivido di agitazione che attraversa la platea – ma anche a problemi più immediati, e troppo spesso trascurati: ” Si tende a considerare l’infertilità un problema femminile, dimenticando che la responsabilità è maschile quasi nel 50 per cento dei casi: i maschi umani producono la peggior qualità di sperma disponibile sul pianeta”.

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