Categorie: Fisica e Matematica

Il ritmo delle note

Gli studi sul paesaggio sonoro si collocano nel punto d’incontro tra ricerca scientifica, scienze sociali e produzione artistica. L ‘acustica e la psicoacustica studiano le proprietà fisiche del suono e il modo in cui il suono stesso viene interpretato dal nostro cervello. Le scienze sociali studiano come l’uomo si comporta nei confronti del suono e come i suoni influenzino e modifichino il suo comportamento. Dalle arti – e in parti- colare dalla musica – apprendiamo come l’uomo possa creare dei paesaggi sonori ideali, per un’altra vita, quella dell’immaginazione e dell’universo psichico”.

Con queste riflessioni 10 studioso Murray Schafer ci introduce, nel suo libro Il paesaggio sonoro, alla molteplicità di accosta menti critici cui si offre il linguaggio musicale. Nel corso di questa nostra conversazione – affidandoci alla specificità delle sue competenze disciplinari e dei suoi orizzonti di ricerca – vorremmo invece che lei tentasse di restituire tale linguaggio alla nostra “cifra critica ” abituale: vale a dire alla nozione di tempo.

Cominceremo quindi col chiederle in quale misura il tempo entra a far parte di una definizione della musica.

Solitamente si pensa alla musica come a un “campo di suoni”. Ma articolazioni sonore a diversi “intervalli di altezza” sono rilevabili anche nel linguaggio parlato: il caso più evidente è quello delle cosiddette lingue a toni (il cinese, ad esempio, o le lingue bantu). Esistono, viceversa, eventi musicali in altezza si limitano ad un’opposizione fra un grave, o sono addirittura del tutto assenti, circostanze tradizionali in cui è sufficiente ripetuto, lo scuotimento di un sonaglio o l’a solo di uno strumento a percussione per indurre alla danza di tipo musicale.

Allora, dato che la presenza di una gamma di suoni diversamente intonati non implica di per se un ambito espressivo musicale – e l’assenza di un’architettura melodica non lo esclude necessariamente – bisognerà cercare il tratto distintivo fondamentale dell’espressione musicale non tanto in ciò che diversifica tra loro i suoni, quanto in ciò che li assimila; ovvero, non tanto nei loro parametri spaziali (altezza, timbro, intensità) quanto nella loro comune obbedienza ad un’unica e specifica dimensione temporale. E in realtà è soprattutto il modo in cui i suoni si sviluppano nel tempo, e vi si dispongono secondo rapporti relativi (e in ciò significativi) di durata, a determinare la “musicalità ” di un evento.

Si può dunque affermare che la musica, per sua natura intangibile e incorporea, si “materializza ” in una temporalità che le è propria e che la distingue dalle altre manifestazioni dell’espressività umana. Non a caso Igor Stravinskij riteneva che la musica avesse soprattutto la funzione di “stabilire un ordine fra l’”uomo” ed il “tempo””, per non parlare della musicologa Gisèle Brelet, che è arrivata a definirla “una speculazione sul tempo inseparabile da un’esperienza del tempo vissuto”.

Si può pensare, allora, alla musica come a un momento di esplicitazione e di precisazione della nozione di tempo?

No, perché – come avrò modo di chiarire – il tempo musicale è una realtà percettiva e non concettuale. Ma sotto questo aspetto il problema tocca i confini della metafisica, se è vero che la ricerca di una definizione di “tempo” (assoluto, relativo, reale, vissuto) è stata al centro delle preoccupazioni di filosofi come Henri Bergson e Gaston Bachelard. Quest’ultimo afferma ad esempio che il tempo è “quello che si sa di lui”. Allora, per il momento, accontentiamoci di sapere che se il tempo è la capacità umana di commisurare gli eventi nella loro successione, il tempo vissuto dipende dai punti di riferimento ad un “prima” e ad un “dopo” adottati per collocare gli eventi e rapportarsi ad essi. E di ricordare che il concetto di tempo varia da epoca a epoca, da cultura a cultura e che anche il tempo reale – nell’accezione comune che lo identifica con quello misurabile ed operativo dei nostri orologi – può o meno coincidere, nella nostra esperienza, con una dimensione di tempo vissuto. Ciò ci consentirà di individuare lo scarto esistente fra il modo in cui tempo e durate si configurano in musica e nella realtà del vivere Quotidiano.

Lei sta dicendo che il tempo musicale non è un tempo reale?

Diciamo che ha una sua natura particolare, che lo rende altra cosa da quello reale: immagini ad esempio un “battimani”, in cui i ogni battito sia separato dal precedente e dal successivo da un eguale intervallo di tempo, supponiamo di un secondo. La coincidenza fra la pulsazione scandita dal battito di mani e quella in secondi del tempo cronometrico può essere considerata, rispetto alla logica dell’esecuzione musicale, un fatto del tutto incidentale. Il battimani potrebbe infatti evolvere in un ‘accelerazione (o decelerazione) costante ed impercettibile, senza per questo alterare significativamente i rapporti di durata fra i singoli battiti, nè quelli fra il battimani e gli altri eventi cui fosse eventualmente associato (danza, canto, esecuzione strumentale, ecc.); questi ultimi, infatti, per un inevitabile processo di “aggiustamento reciproco” dei ritmi, si adeguerebbero automaticamente alla progressiva trasformazione. Allo stesso modo, la melodia di un canto può restare significativamente uguale pur variando la velocità di esecuzione, perché resteranno inalterati non solo gli intervalli di altezza fra i suoni, ma anche i loro rispettivi rapporti di durata. Per quanto misurabile in tempo reale (è questa appunto la funzione del metronomo nella musica colta occidentale) o per quanto possa essere vissuto come reale nel corso dell’esecuzione, il tempo musicale soggiace quindi ad una logica autonoma ed autosufficiente, in virtù di una sistematica relatività dei propri valori, di. durata. Per esemplificare ulteriormente tale concetto ci si può richiamare (come ha fatto molto a proposito il musicologo Pietro Righini in un suo studio analitico sul ritmo musicale) alle vicissitudini di Phileas Fogg ne Il giro del mondo in 80 giorni di Giulio Verne. Come si sa, convinto di aver viaggiato per ottantun giorni, Mr. Fogg vince comunque la sua scommessa grazie al fatto che il tempo di Londra, durante lo stesso numero di ore, non ne aveva contati che ottanta. Rimane che la realtà da lui vissuta era quella degli 81 giorni e non quella degli 80, in quanto, camminando incontro al sole, Fogg aveva accorciato il periodo del ritmo giornaliero. Questo esempio dimostra che per uno stesso evento possono esistere due differenti durate periodiche, se quell’evento viene misurato da due sistemi diversi, uno fisso e l’altro provvisto di moto. Ciò vale anche per le durate musicali, che possono essere misurate in tempo cronometrico e vissute nella relatività loro conferita dal movimento di esecuzione.

È in questo senso, come accennava prima, che la rappresentazione del tempo musicale si può definire di tipo percettivo e non concettuale?

Esattamente: una porzione di tempo reale diviene musicale dal momento in cui, intenzionalmente, ci si sincronizza in un sistema relativo di durate (ritmo), immettendosi così in una dimensione “ciclica ” che consente di vivere i diversi momenti come unità ripetibili di “tempo presente”. Ciò spiega, fra l’altro, come anche i silenzi possano acquistare consistenza musicale, non solo come “non-suoni” rispetto ai suoni, ma anche come specifici valori di durata (pause). Da un punto di vista antropologico, ci si è spesso interrogati sulle ragioni profonde che hanno spinto l’uomo a costruirsi – anche attraverso l’espressività musicale – una dimensione temporale ciclica ed autoregolata, in qualche modo alternativa a quella lineare del vivere quotidiano. La maggior parte delle risposte sembrano convergere sull’ipotesi di una sorta di evasione dall’inesorabilità del tempo, analoga a quella che si realizza nel rito. La musica trasforma il tempo reale in “tempo virtuale”, sostiene l’etnomusicologo John Blacking; essa “costituisce un mondo a se con un suo proprio spazio e un proprio tempo”, ha osservato lo storico delle religioni Van der Leeuw a proposito della musica impiegata nei rituali religiosi; “è il solo dominio nel quale l’uomo realizza il presente”, ha sostenuto Stravinskij; “è una macchina per sopprimere il tempo”, ha addirittura affermato Levi-Strauss.

Pare accertato che esistano precise componenti fisiologiche della rappresentazione del tempo musicale: le danze dei Dervisci, presso i quali il ritmo del tamburo si situerebbe come conseguenza metaforica del battito cardiaco ne rappresentano solo un esempio. Ci sono studi specifici condotti in questa direzione?

Una delle ipotesi più interessanti a mio avviso è quella espressa da Philip Tagg, secondo cui il tempo musicale sarebbe in rapporto diretto con la frequenza del battito cardiaco dell’uomo, che va da un minimo di 40 battiti per minuto a poco più di 200; ed è importante ricordare come questa estensione coincide con quella del metronomo (che misura da un larghissima di 40 battiti per minuto ad un prestissimo di 208 battiti per minuto), il cui tempo medio (91 battiti per minuto) corrisponde alla frequenza delle pulsazioni cardiache di un uomo adulto che cammini ad andatura normale. Cosicché ogni ipotetico tempo superiore o inferiore rispetto al ritmo normale di un coefficiente maggiore di 2 tenderà ad essere automaticamente diviso o moltiplicato per 2, in modo da riportare il tempo in prossimità di un rapporto 1:1 con la frequenza del battito cardiaco dell’uomo. Per esser più chiari, questo lascerebbe supporre che il ritmo cardiaco, come altri ritmi fisiologici, ad esempio il ritmo respiratorio, non siano estranei alla percezione del ritmo musicale. Tant’è vero che i casi in cui la musica interviene ad alterare i livelli di coscienza – come nel caso dei Dervisci, ed in generale dei riti musicali delle confraternite musulmane – questo cambiamento del livello di attivazione mentale passa spesso attraverso un’alterazione del metabolismo respiratorio, o per essere più precisi, dei tassi di ossigenazione del sangue.

Esistono differenze percettive e classificatorie tra la nozione di tempo nella teoria musicale occidentale e in altri sistemi di culture musicali?

Nel lessico della musica occidentale il termine tempo viene anzitutto impiegato per indicare, in senso descrittivo e prescritti, il movimento cui si attiene l’esecuzione. L’indicazione può essere di tipo relativo, come ad esempio nelle varie didascalie poste, nelle partiture, sopra il pentagramma: allegro ma non troppo, largo, prestissimo, ecc.; oppure di tipo assoluto, ed in tal caso viene presa a riferimento la durata di esecuzione di una ” determinata unità di valore, misurata in tempo cronometrico o metronomico; in entrambi i casi il termine tempo indica, in modo più o meno preciso, il rapporto fra tempo reale e tempo musicale. Questo appiattimento del tempo reale sul tempo cronometrico si inscrive in una più generale esigenza di razionalizzazione che ha caratterizzato l’evoluzione della nostra cultura. Basti pensare che nel Medioevo era il tactus, il battito del polso, a venire assunto come riferimento per il tempo musicale. Ci si potrebbe chiedere, a questo proposito, se già allora il ricorso a una pulsazione corporea non nascesse più dall’esigenza di razionalizzare le misure musicali che non da un naturale rapporto tra musica e ritmicità interna. E forse è anche da questa incertezza che derivano le molte ambiguità del termine tempo nel lessico della musica occidentale. Ad esempio il termine tempo viene usato frequentemente come sinonimo di ritmo (o meglio, di organizzazione ritmica): per cui si parlerà di “tempo ternario”; oppure come sinonimo di metro (termine a sua volta confuso con quello di misura): “tempo di 3/4”, “tempo di 12/8”, e così via; o ancora come sinonimo di unità di battuta (o, impropria- mente, movimento): e si dirà in questo caso “a tre tempi” o ancora “primo tempo forte”, “secondo e terzo tempo deboli”.

Ma una concettualizzazione del tempo musicale si ritrova anche in molte altre culture. E in tutte le culture il riferimento ad una pulsazione regolare è alla base dei diversi schemi (metrici, accentuali ecc.) di organizzazione del tempo musicale, così come il concetto di periodicità ritmica è largamente diffuso, anche se spesso – come accade per il concetto di suono musicale – viene espresso attraverso metafore: fra i somali, ad esempio, esso è chiamato jaan (battito dei piedi) e in molte altre società africane è associato ai “passi” o ai “passi di danza”. Esistono tuttavia repertori, anch’essi largamente distribuiti nelle varie parti del mondo, in cui l’organizzazione delle durate prescinde dal riferimento ad una pulsazione (si parlerà allora di tempo indeterminato o ritmo libero). In tali casi, se si tratta di poesia cantata il fattore temporale strutturante sembra potersi rintracciare nei principi di organizzazione metrica e prosodica del testo verbale; se viceversa si tratta di musica strumentale è la forma stessa del brano ad imporre una struttura temporale all’intera esecuzione, in qualche modo determinando le “soglie” di durata dei vari elementi melodici o addirittura regolando il loro ordine di apparizione (come ad esempio avviene nella prima parte, detta alap, dei raga indiani).

La dimensione temporale musicale è comunque inscindibile dalle circostanze in cui l’evento si produce. Un caso emblematico è quello dei “canti di lavoro”, rilevabili nella tradizione musi- cale di gran parte delle culture, in cui i gesti ripetitivi dell’attività lavorativa (agricola, marinara, ecc.) vengono sincronizzati al tempo “relativo” della musica, al fine di alleviare la fatica ed “ingannare il tempo”, ovvero rendere meno gravoso il trascorrere delle ore. In questo tipo di canti la temporalità musicale si offre significativamente come il risultato di un compromesso fra tempo “reale” e tempo “ciclico”.

Un compromesso cui comunque la musica perviene fuori dal terreno specifico della propria temporalità – ogni qualvolta un evento musicale si insinua fra le pieghe fruitive del tempo reale. In questa prospettiva, che rapporto intrattiene la musica con il tempo reale della vita e con la cultura che la origina?

Questo dipende dalle specifiche funzioni che la musica è chiamata ad assolvere, anche se è vero che i rapporti che una determinata società stabilisce tra forme, funzioni, occasioni e modalità di esecuzione della propria musica sono l’espressione di un’unica e indivisibile ratio musicale; e che questa, a sua volta, è il prodotto ed il riflesso di comportamenti e concetti sulla cui base tale società ordina ed interpreta la realtà. Non è un caso che la musica occidentale è condizionata da una concezione lineare del tempo, che è poi quella dei nostri orologi, mentre quella indiana dà più importanza al momento del giorno o alla stagione nella quale la si esegue, o ai ritmi interiori dell’esecutore. Così come non è un caso che nella nostra cultura la musica assolva là sua funzione principale all’interno di un cosiddetto “tempo libero” o sia relegata a una funzione subordinata all’interno di altri tempi “speciali” (cinematografico, teatrale, di produzione, e così via); mentre in altre culture la soglia e la distinzione gerarchica tra tempo reale e tempo della (o per la) musica sono molto meno accentuate. Probabilmente è per questa sua indissolubilità dal “fatto sociale totale” che la musica può caricarsi di significati, in una sorta di rinvio a stati emozionali propri al contesto culturale di cui anch’essa è prodotto e riflesso.

In questa logica, se variano le funzioni, un evento può perdere o cambiare sostanzialmente, anche all’interno di una stessa cultura il suo statuto musicale: ad esempio, fra i pigmei della Repubblica Centrafricana, eventi sonori identici per forma e struttura sono considerati richiami e segnali se impiegati durante la caccia nella foresta, vera e propria musica se utilizzati nella successiva festa di ringraziamento.

La questione delle funzioni della musica in una data cultura è pertanto meno semplice. di quanto potrebbe sembrare. A titolo esemplificativo potremmo tentare di ricondurre il comportamento musicale a tre ordini di funzioni: espressive; di organizzazione e supporto delle attività sociali; di induzione e coordinamento delle reazioni sensorio-motorie. Le funzioni espressive della musica rinviano alla questione, estremamente problematica, di come la musica stessa è in grado di veicolare significati e di evocare o rappresentare eventi, concetti estati d’animo extramusicali; questione divenuta, negli ulti- mi decenni, uno degli oggetti privilegiati della semiologia della musica. Le funzioni di organizzazione e supporto delle attività sociali si esplicano nelle occasioni comunitarie (rituali-cerimoniali, ludiche, lavorative ecc.) dove l”’ordine” musicale viene anche utilizzato per inquadrare, sincronizzare e in definitiva socializzare i comportamenti individuali. Un esempio per tutti: i canti e le marce militari.

Le funzioni di induzione e coordinamento delle reazioni sensorio-motorie, infine, si collocano a metà strada fra le prime due classi, in quanto rinviano alle modalità – ancora non del tutto chiarite – secondo cui la musica interagisce con i meccanismi automatici e volontari del corpo umano, in ciò incidendo anche nel processo di simbolizzazione: si pensi ai fenomeni di trance di alcuni riti a sfondo religioso-terapeutico, oppure ai fenomeni di parossismo degli ascoltatori di un concerto rock.

Come è facile intuire, la distinzione tra funzioni espressive, di organizzazione sociale e di induzione sensorio-motoria è soprattutto un espediente analitico. Nella pratica musicale, fra i tre ordini di funzioni non vi è un’effettiva soluzione di continuità, ma piuttosto si assiste al prevalere di un ordine rispetto agli altri, a seconda delle occasioni in cui la musica è impiegata. Del resto, lo scarto esistente fra le descrizioni dei “fenomeni” e la definizione dei “comportamenti” ritenuti musicali è ancora profondo. Ed è assimilabile al paragone suggestivo proposto da un etnomusicologo francese, Bernard Lortat-Jacob, secondo il quale, così come l’amore non è riducibile alle tecniche amorose o alla funzione di procreazione, la musica non si può ridurre alle molteplici e complesse funzioni che assolve, o alle tecniche che mette in gioco. Un paragone che forse potrebbe essere esteso ai contenuti di discussioni come questa, nelle quali non potendo restituire l’efficacia della sostanza sonora dei fatti musicali, ci si trova a riflettere, più che sulla musica, su ciò che si dice attorno ad essa… Rimane da percorrere e da esplorare tutto l’in-canto della sfera musicale, tutta la forza suggestiva che, grazie alla musica, consente a un individuo di condividere con gli altri l’illusione di manipolare l’ineffabile e l’ignoto o, come diceva Levi-Strauss, di “sopprimere il tempo”. Una forza il cui ultimo segreto non è probabilmente diverso da quello celato in un noto proverbio zen: “tutti conoscono il suono del battito delle mani, ma qual è il suono di una mano sola?”. Certamente quel suono non è ne “tic- tac”, ne l’inquietante silenzio di un cronografo al quarzo…

Questo articolo è apparso originariamente su L. Faranda, L.M. Lombardi Satriani Forme del tempo, Monteleone, Vibo Valentia 1993

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