La “Deposizione” di Raffaello è tornata. Da martedì 10 maggio scorso è possibile ammirarla in Galleria Borghese, dov’è da circa quattro secoli, per la precisione dal 1608, anno in cui il cardinal Scipione, nipote di Paolo V Borghese, ne commissionò il furto, uno dei più noti della storia dell’arte. Il dipinto fino ad allora era stato nella chiesa di S. Francesco al Prato a Perugia, nella cappella per cui la nobildonna perugina Atalanta Baglioni l’aveva richiesta a Raffaello nel 1507. A causa della sua fragilità nemmeno la restauratrice che ha operato sul dipinto negli ultimi mesi, Paola Tollo, lo ha fatto spostare, lavorando in una speciale cassa-laboratorio allestita per lo scopo nella sala della Galleria.La tavola, convenzionalmente nota come Deposizione Baglioni, in realtà raffigura il Trasporto di Cristo al sepolcro – Vasari nell’edizione delle Vite del 1550 parla di «Cristo morto portato a sotterrare» – accompagnato dalle pie donne, tra cui la Vergine sorretta nel momento dello svenimento, la Maddalena, al centro della composizione, Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo, Giovanni Evangelista, la splendida figura di giovane di spalle, il cosiddetto Grifonetto dal nome del figlio di Atalanta Baglioni, assassinato nel 1500 e di cui è tradizionalmente ritenuto il ritratto. Lo sfondo paesistico presenta defilato il Golgota su cui sono ancora le tre croci.L’intero processo di restauro, finanziato dalla Jaguar Italia S.p.a., è iniziato con il preliminare consolidamento: si è così verificato lo stato di adesione della pellicola pittorica, rafforzata con sacchetti contenenti microsfere di rame poggianti su una pellicola di poliestere siliconato a sua volta a diretto contatto con il dipinto, che hanno garantito la pressione per 48 ore nei punti più a rischio.Nell’Ottocento le 6 tavole di cui è composta la struttura erano state fissate tramite una parchettatura sul retro che ne ha impedito i naturali movimenti, causando danni più seri in corrispondenza delle giunture tra un’asse e l’altra. Oggi l’opera è inserita in uno speciale supporto, inventato appositamente dall’Istituto centrale del Restauro, capace di assecondare le conseguenze dell’igroscopicità del legno.La fase successiva ha riguardato la diagnostica: la tavola è stata sottoposta a riflettografia infrarossa, fluorescenza X (XRF), fluorescenza da ultravioletti, micro e macro fotografie, tutti procedimenti che hanno precisato dove intervenire, confermando spesso la presenza di una stesura pittorica sottostante alle ridipinture.L’attuale intervento è seguito a quello del 1972, a cura dell’Istituto Centrale del Restauro, fattore che ha aiutato non poco Paola Tollo che ha potuto così agire più facilmente sull’opera: vernici protettive aggiunte allora rispettando i materiali originali, ma ormai ingiallitesi, infatti, sono state rimosse con semplici miscele di alcol. Diverso il discorso per le ridipinture precedenti, talvolta aggiunte a olio laddove in origine era la tempera, e per il cui asporto è servito l’ausilio meccanico del microbisturi coadiuvato da una lente luminosa a forte ingrandimento.La stuccatura, eseguita con un impasto di gesso di Bologna e colla animale, ha risolto i problemi di microfratture, fori di uscita dei parassiti del legno. L’intera tavola, infine, è stata ricoperta di un sottile strato protettivo costituito dalla vernice à retoucher applicata a pennello e dalla Regal Varnish, a base di resine alifatiche con aggiunta di antiossidanti per rallentare i processi d’invecchiamento.“Un lavoro complesso che ha permesso di ritornare a una percezione cromatica che può essere paragonata a quella successiva ai restauri della Cappella Sistina”, ha affermato la direttrice del lavoro, Kristina Hermann Fiore. “La leggibilità dell’opera è nuovamente garantita a un dipinto mortificato dalle ridipinture successive. Pur conservando la patina più antica, infatti, sono ora ben visibili il forte rilievo delle figure, i delicati particolari, ma soprattutto i passaggi cromatici voluti dal maestro urbinate”.