Il ritorno della quinua

Era il “riso” degli Incas. Ricca di proteine pregiate, capace di sopravvivere alle difficili condizioni climatiche degli altipiani, la quinua era stata per millenni un alimento base nella dieta delle popolazioni dell’immensa area andina fra Cile, Bolivia, Perù, Ecuador e Colombia. Poi arrivarono gli Spagnoli. Imposero la coltivazione del grano e scelsero fra le piante indigene il mais e la patata, più adatte al commercio ma assai meno nutrienti. Proibirono in molte aree di coltivare la quinua, anche per impedire le feste pagane legate alla semina e alla raccolta dei piccolissimi, preziosi semi di questo pseudo-cereale della famiglia delle Chenopodiacee.

E la quinua cominciò a scomparire. Decennio dopo decennio, secolo dopo secolo, la sua coltivazione venne relegata in aree sempre più piccole e remote, negli altipiani più aridi e poveri, dove era l’unica pianta capace di sfamare i contadini indigeni. Moltissime varietà locali, selezionate durante tremila, forse cinquemila anni di domesticazione, andarono perdute. Sopravvisse una pianta semi-selvatica, dai semi di sapore amaro (gli unici evitati dagli uccelli), che la Fao negli anni ‘50 elencava fra le “neglected crops”, le piante potenzialmente commestibili ma praticamente inutilizzate.

Oggi la quinua sta vivendo la sua seconda giovinezza. La sorpresa de quinoa real con verduritas y pasta fresca è stato il piatto forte del recente ricevimento di nozze della principessa Cristina di Spagna: cinquecento anni dopo la conquista, l’umile, indigena quinua fa il suo ingresso trionfale nel vecchio continente. Un incontro di esperti svoltosi all’Istituto Italo-Latino Americano di Roma martedì scorso, ha fatto il punto della situazione. Diversi programmi nazionali e internazionali cercano di rilanciare la coltivazione e il consumo delle circa 200 varietà di quinua sopravvissute all’abbandono. Il loro materiale genetico viene custodito in decine di banche del germoplasma, e i ricercatori sono al lavoro per cercare di ricostruire la diversità e la qualità originarie delle piante, che fino al sedicesimo secolo venivano coltivate da milioni di contadini.

Nel frattempo negli Stati Uniti e in Europa vegetariani e appassionati di alimentazione naturale hanno scoperto le potenzialità dei suoi semi. Il loro contenuto proteico è elevato (circa il 13%, di gran lunga superiore a quello del riso o del mais), e può vantare la presenza abbondante di un aminoacido prezioso, la lisina, che è quasi assente nei cereali. Ma non basta. Anche il contenuto di acidi grassi è ben bilanciato: il 72% di grassi polinsaturi, il 23% di grassi saturi e un’alta concentrazione di acido linoleico fanno della quinua un ottimo mezzo per prevenire l’ipercolesterolemia. Per finire, ferro, calcio e magnesio in quantità e diversi flavonoidi, antiossidanti e anticarcinogenici, completano il ritratto di un alimento pregiato.

Così, mentre in Sud America la quinua è ancora relegata a poche coltivazioni in Perù e Bolivia, ed è disprezzata dagli abitanti delle città che la chiamano “il mangime dei poveri”, Usa ed Europa ne importano sempre di più. Cominciando a coltivarla, e a modificarla geneticamente. Decine di istituti nordamericani, inglesi, olandesi e danesi lavorano intensamente alla creazione di nuove varietà. E anche l’Unione Europea ha finanziato un progetto triennale di studio. Perché? “Per rendere la quinua più competitiva rispetto alle altre colture e più adatta alle esigenze di un’agricoltura moderna e meccanizzata”, spiega a Galileo Basilio Donini, professore e ricercatore della Divisione Biotecnologie ed Agricoltura dell’Enea.

Le varietà tradizionali, infatti, sono ancora poco produttive: fra i 600 e i 1000 quintali per ettaro. Quelle nuove supereranno i quattromila. E non solo: si cercano varietà prive delle saponine, che causano il sapore amaro dei semi (e rendono necessario lavorarli prima della vendita), varietà i cui semi non cadano facilmente dalla pianta, varietà adatte a ogni tipo di clima e di terreno, a fornire foraggio per gli animali o sostanze utili all’industria. E così via.

Buone notizie, dunque, per i piccoli coltivatori sudamericani? Le nuove varietà ad alto rendimento potrebbero aiutare a produrre di più e a basso costo, garantendo sicurezza alimentare alle famiglie di contadini e la possibilità di competere sul mercato. Ma, ritagliate per un’agricoltura moderna e industriale, “migliorate” geneticamente per affermarsi nelle grandi pianure nordamericane o nelle valli europee, potrebbero anche rivelarsi un boomerang: grandi monocolture di quinua nei paesi industrializzati, ad altissima produttività e basso costo, potrebbero tagliare fuori dal mercato la produzione andina.

C’è di più: il miglioramento genetico passa sempre più spesso per la brevettazione delle nuove varietà. Come potranno accedere alle piante migliorate i piccoli coltivatori? Gli esperti della Fao si dichiarano tranquilli: i loro programmi per il rilancio e il miglioramento della pianta appoggiano solo progetti nazionali e pubblici. Le varietà ottenute saranno distribuite agli agricoltori gratuitamente.

Ma anche i privati hanno intravisto il business della quinua. Duane Johnson e Sarah Ward, ricercatori dell’Università del Colorado, hanno brevettato, già nel 1994, una varietà boliviana di quinua. I loro diritti, secondo la legge statunitense, non sono limitati a quella varietà, ma a ogni altra da essa derivata. Fino al 2011 i due scienziati possono richiedere il pagamento di royalties a chi volesse esportare negli Usa semi di quinua derivati dalla varietà brevettata. Anche se la “loro quinua” altro non era che una delle tante piante native: “Noi – dichiarano gli stessi Johnson e Ward – l’abbiamo soltanto raccolta, identificata e utilizzata per produrre ibridi”.

E così, la pianta dai tanti nomi (hipa, dahua, suba, pasca, kiuna…) che i popoli andini usavano per nutrirsi, per curare le malattie, per i riti magici e le offerte sacre, sta per risorgere in mille forme. Sempre che i pronipoti del conquistatore bianco non scelgano di scippare quest’ultimo seme di ricchezza ai discendenti degli Incas.

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