Il sapere non è neutro

Donne e scienza: un binomio che ha diverse sfaccettature. Da circa trent’anni, anche sull’onda dei movimenti femministi degli anni ‘70, sono stati prodotti numerosi lavori di analisi, alcuni più teorici, altri puramente statistici, sulla presenza e il ruolo del genere femminile all’interno del mondo scientifico.Perché le donne nei centri di ricerca sono ancora poche, soprattutto nei posti di responsabilità e di potere? Ci sono dei motivi specifici che per secoli – salvo rare occasioni -hanno tenuto lontane le donne dalla scienza più che da altri campi di attività? Cosa è cambiato nel panorama culturale rispetto a questo problema negli ultimi tre decenni, e quanto di questo cambiamento è dovuto all’impegno di gruppi di lavoro di scienziate e donne intellettuali che si sono interrogate su questi temi?Ne abbiamo parlato con Elena Gagliasso, filosofa e storica della scienza all’Università di Roma “La Sapienza”, da anni impegnata come epistemologa e come femminista nell’analisi di queste problematiche.

Da dove nasce il suo interesse per il binomio donne e scienza?

Potrei dire che si tratta di confluenze storiche in parte obbligate e in parte casuali. Fino a un certo periodo di tempo ho tenuto decisamente separate la mia professione dalla militanza femminista. Ma ricordo che allora provavo un certo disagio di fronte ad alcune posizioni del movimento femminista che opponevano alla scienza una critica molto radicale, che toccava punte di irrazionalismo. Sentivo una debolezza nel movimento delle donne, soprattutto nel suo riattraversare tematiche – come una maggiore vicinanza delle donne alla natura – che non erano affatto nuove. Infatti, dal romanticismo al naturismo dei primi del ‘900, gli uomini, parlando delle donne, le collocavano proprio in questa dimensione di maggiore naturalità. Provavo una certa insofferenza nei confronti di questa riproposizione che, peraltro, era qualcosa che non ci apparteneva. Contemporaneamente, in quegli stessi anni, ero particolarmente interessata a tutte le tematiche che avevano a che fare con la non-neutralità della scienza.

A cosa si riferisce?

Parlo di quella linea epistemologica che prendeva le mosse da figure di rilievo come Kuhn, Hanson, Lakatos e che si contrapponeva alla visione allora corrente secondo la quale il progresso scientifico era unilineare e inarrestabile. Questa posizione “tradizionale”, del resto, era sostenuta e rafforzata dagli epistemologi di derivazione neo-positivista (per esempio Carnap, Neurath, fino a Popper) che non solo consideravano ovvia tale premessa ma, su questa base, impostavano le loro ricerche dell’unità della scienza. In Italia questa critica della scienza nasceva non solo da analisi di tipo storico ed epistemologico, ma anche da basi politiche. Mi riferisco soprattutto al gruppo romano di fisici intorno a Marcello Cini: per loro la neutralità della scienza voleva dire impossibilità di parlare di una scienza completamente oggettiva e neutrale rispetto al contesto sociale e politico. Essi partivano da una personale messa in discussione, una sorta di autocritica, che permettesse di poter auto-osservare la parzialità della propria posizione: appartenenza a una comunità disciplinare, a un contesto epocale, a una situazione storica ed economica e così via. Quindi neppure le domande scientifiche erano neutre, ma influenzate da molti elementi: economico, culturale, di storia delle idee, di percorso personale. Ai miei occhi loro posizione era particolarmente interessante proprio perché proveniva dall’interno del percorso scientifico stesso, e non era opera di storici o di filosofi.

Dunque, in quegli anni, differenti linee di pensiero confluivano verso una messa in discussione del ruolo tradizionale della scienza?

Sì, percepivo una sorta di riverberanza tra alcune delle prassi del movimento femminista (il “partire da sé”, il ruolo del soggetto, il tener conto del contesto storico) e le proproste dei fisici di Roma che analizzavano la loro stessa posizione dall’interno della pratica scientifica mettendo in discussione gli assunti che fino agli anni ‘60 erano stati considerati ovvi. L’epistemologia, dal canto suo, si stava avvicinando a una problematizzazione della tradizionale concezione della scienza come progressivo disvelamento del vero e come attività neutrale nella ricerca pura, a prescindere dagli usi sociali che potevano essere positivi o meno. A questo devo aggiungere la lettura di testi di studiose che già da anni stavano facendo un percorso analogo al mio: per esempio Evelyn Fox Keller, Sandra Harding, Donna Haraway e in parte Caroline Merchant. I loro lavori mi dimostravano che questa problematica cominciava ad essere matura nell’aria: le risonanze che sentivo tra la situazione complessiva dell’epistemologia di quegli anni e le posizioni di queste epistemologhe e storiche straniere avevano una qualche importanza e potevano essere messe in connessione.

Ovviamente, il tema della non neutralità della scienza è centrale rispetto al discorso della presenza delle donne nel mondo scientifico. Ma qual è la differenza tra la non-neutralità della scienza di cui parlavano gli epistemologi e i fisici del gruppo di Roma e quella a cui si riferiscono le donne?

In questa seconda accezione c’è qualcosa di più: non solo la scienza non è neutrale nel senso che non è oggettiva, ma non è neutra neppure rispetto al sesso. Quanto più si analizza, non solo la situazione contemporanea, ma anche quella delle origini del processo scientifico, tanto più emerge con chiarezza il fatto che, tra tante attività in cui si muovono i soggetti sociali, dall’arte alla letteratura, la scienza è quella che maggiormente ha rappresentato il proseguimento di una forma di pensiero monosessuato e omofilo.

Che cosa vuol dire questo: che le donne che hanno avuto successo nella scienza si sono dovute “mascherare” da maschi?

Se guardiamo alla storia, questo è certamente vero alla lettera: alcune hanno dovuto mascherarsi davvero da uomini, in senso reale e non solo metaforico. Molto spesso, sono state costrette a far passare i loro lavori come lavori fatti da uomini o comunque annullare il loro essere donne. Ma siamo nel lontano passato. Io credo che ci sia un gradiente che parte dalla fine dell’800, attraversa questo nostro secolo e va verso il futuro nel quale questo “mascheramento” diventa sempre più simbolico e sfumato. Se prendiamo le scienziate degli anni ‘50, certamente dovevano omologarsi il più possibile al mondo maschile – come atteggiamento e modo di pensare – per essere accolte nel mondo monosessuato della scienza. Molto più delle loro colleghe degli anni ‘60 e poi ‘70, fino ad arrivare alle giovani ricercatrici di oggi, che sempre meno devono indossare questo “chador” ideale e che invece possono cominciare a intessere legami professionali tra loro, e con ciò autolegittimarsi all’esistenza.Bisogna però dire che questo cambiamento è anche il risultato di un banale effetto quantitativo: il maggiore numero di ricercatrici funziona come un contrappeso. Infatti, l’esistenza di una massiccia presenza femminile permette alle donne una maggiore libertà di pensiero e modifica circolarmente il modo di relazionarsi dei ricercatori uomini con le donne. Intendo dire che, lasciando da parte la scarsa presenza femminile che si può registrare ai livelli dirigenziali, oggi il modo di rapportarsi dei ricercatori uomini e donne tra loro è meno segnato da quell’impronta che ha costretto ogni donna scienziata delle generazioni precedenti a moltiplicare gli sforzi rispetto ai colleghi maschi per essere semplicemente accettata dalla comunità scientifica.

Questo è un risultato del lavoro svolto dal gruppo di studio “donne e scienza” di cui lei ha fatto parte fin dalla sua creazione nel 1987?

No, quanto detto è semplicemente una registrazione che definirei quasi antropologica. Invece il Coordinamento donne e scienza ha lavorato sulla autoconsapevolezza del proprio essere scienziate. Voglio dire che nel confronto di esperienze comuni a molte scienziate (non totale riconoscimento del proprio lavoro, marginalità, difficoltà di accesso a particolari ruoli o di relazioni con particolari strutture o gruppi di ricerca) diventa possibile generalizzare quello che fino ad allora era vissuto come un’esperienza singola, individuale e privata. A partire da qui, le scienziate che hanno cominciato a lavorare in collegamento fra loro, secondo quanto riferivano, riuscivano a vivere alcune loro situazioni individuali in modo diverso, perché le reinterpretavano attraverso una analisi collettiva.

Le difficoltà percepite prima individualmente e poi riconosciute comuni erano soprattutto nella gestione del lavoro o nella sostanza della ricerca?

In un primo momento direi soprattutto nella gestione: perché devo lavorare e produrre dieci volte più del mio collega per essere riconosciuta a pari livello? Era un discorso, potrei dire, rivendicazionista. Da lì poi sono partite domande più di fondo, maggiormente legate ai contenuti del lavoro scientifico. Ma su questo argomento non c’è stata univocità. Bisogna considerare che all’interno del gruppo esistevano esperienze molto distanti: dalle ingegnere dell’Ansaldo, alle genetiste molecolari, alle matematiche, alle epistemologhe. A un estremo, dunque poteva trovarsi chi rivendicava una totale non appartenenza delle donne al modo in cui si è costituita la ricerca, e quindi ipotizzava la necessità di accantonare la ricerca stessa per arrivare solo in un secondo momento a poter porre nuove domande scientifiche. All’altro estremo c’era chi era interessata al proprio ambito di ricerca, ne ricavava una reale passione scientifica e aveva invece delle difficoltà di altro tipo, diciamo gestionale.

Qual è il suo bilancio dei risultati raggiunti dal gruppo “donne e scienza”?

Nel tracciare un itinerario della storia del gruppo, bisogna tenere presente che il contesto è cambiato: la scienza di cui si parla oggi, a mio parere, si è modificata da quella di venti anni fa. A questo si aggiungano i cambiamenti sociali e politici che rendono il contesto storico sostanzialmente diverso: se negli ultimi trent’anni la società ha fatto un passo avanti rispetto alle possibilità di accesso delle donne in molti settori, è anche vero che il clima culturale, politico ed economico degli anni ‘90 penalizza la libertà femminile. Le donne si sono ritrovate a dovere rifare addirittura semplici battaglie di civiltà quando, per altri versi, sono molto più avanti rispetto alle loro madri. Non si può insomma parlare di risultati precisi, ma di cambiamenti che fanno parte di una grande mutazione antropologica collettiva. Ma è certo che il punto di partenza attuale di molte giovani ricercatrici è la sensazione di avere le stesse possibilità dei loro colleghi. E’ come se oggi a certi sbarramenti, che siano teorici, gestionali e via dicendo, si arrivasse molto più tardi e quindi ciò permettesse a queste giovani di avere uno spazio più ampio per l’edificazione di se stesse, salvo poi incontrare difficoltà in una fase successiva.

E rispetto a posizioni più radicali, come la prospettiva di modificare alcune caratteristiche “intrinseche” del fare scienza?

Neppure una rivoluzione riesce a cambiare delle costruzioni che si sono stratificate in quattro secoli di storia esplicita e in duemila anni di edificazione del modo di pensare occidentale. A mio parere, non è questo il problema. E’ vero, le donne si ritrovano fin dalla prima infanzia in un mondo che non è stato costruito in prima persona da loro, e devono imparare una lingua che è data e che non le rispecchia interamente. Questo vale soprattutto per i termini che vengono usati in campo scientifico: le metafore che vengono messe in gioco, la costruzione del modo di porre le domande. Però esistono all’interno di tutti i settori scientifici delle ampie aree, di pratica e di teoria, dove è inutile andare a cercare aspetti di sessuazione. Esistono ambiti di neutralità: poste alcune premesse, che neutre non sono – il mondo del metalinguaggio e delle metaregole – i percorsi successivi sono canalizzati. All’interno di questi percorsi i linguaggi tecnici sono in codice, e dunque non si possono analizzare con la chiave della sessuazione. Qualsiasi donna che lavora in un ambito di ricerca specifico, partecipa di una curiosità per il reale che non è necessariamente segnata dalla sua specificità di genere ma fa parte di una grande impresa comune.

Che cosa pensa delle pari opprtunità?

Il principio delle pari opportunità è basilare. Non si tratta però, a mio parere, di stabilire “parità di posti”, o di “quote”, ma di promuovere un principio di giustizia nell’accesso alla conoscenza e nella possibilità di espressione e ricerca, superando gli scarti storici che hanno marginalizzato le donne. Penso ad esempio, concretamente, alla costruzione dei percorsi di studio, e al modo in cui gli insegnanti si relazionano ai bambini e alle bambine fino dai primi anni di scuola. Un modo che è, tuttora, inconsapevolmente sessista, anche nei paesi più avanzati.

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