Immunizzati contro il cancro

Per colpire il cancro possiamo decidere di individuare e curare le cellule cancerose, oppure, di considerare l’ospite, l’organismo umano. A questa seconda opzione si dedica una parte dell’immunologia, quella che studia il microambiente che sta intorno alle masse tumorali, nel quale e grazie al quale crescono e proliferano. L’idea è quella di usare il sistema immunitario, lo stesso che è stato in parte “corrotto” dal cancro, per colpire le cellule tumorali.

Istruire in questo senso i linfociti T, le sentinelle che segnalano all’organismo la presenza di elementi estranei, è la strada percorsa da Steven Rosenberg del National Cancer Institute di Bethesda, un pioniere in questo campo, che ha già portato ai primi risultati. Il trapianto su 17 pazienti affetti da melanoma allo stato avanzato di linfociti T ingegnerizzati in modo da riconoscere il cancro e fatti sviluppare il vitro ha causato in due di questi l’assenza di malattia a un anno e mezzo dall’operazione.

“Già da tempo sappiamo che questo tipo di terapia funziona”, ha commentato Alberto Mantovani, direttore scientifico dell’Istituto Clinico Humanitas, uno dei massimi esperti nel campo dell’immunologia anti-cancro. “Aspettiamo solo di vedere i primi risultati”. Come quelli presentati durante il convegno “Targeted therapies in cancer: myth or reality?”, organizzato da Nerviano Medical Science gli scorsi 4-5 settembre a Milano, da Malcom Brenner. Il ricercatore del Center for Cell and Gene Therapy del Baylor College of Medicine di Houston è riuscito a “educare” i linfociti T a riconoscere e distruggere le cellule colpite dal virus di Epstein Barr, presenti nei linfomi EBV+, e quelle tipiche di alcuni tumori solidi come il carcinoma nasofaringeo, ottenendo risultati clinici promettenti anche in casi in cui la malattia era ricomparsa dopo le terapie o in cui si era creata una resistenza ai farmaci.

“Una speranza, quella dei vaccini terapeutici, a cui stanno lavorando in tutto il mondo, noi compresi”, ha spiegato Mantovani, co-organizzatore del convegno milanese. Il doppio legame fra infiammazione e tumore è ormai un fatto assodato: nel tessuto che circonda la massa cancerosa, infatti, sono presenti cellule e mediatori chimici – come macrofagi, citochine e chemochine – tipici dei processi infiammatori e, allo stesso tempo, si ha un rimodellamento dei tessuti e lo sviluppo di nuovi vasi sanguigni.

“I macrofagi, come dei poliziotti corrotti, anziché difendere come dovrebbero l’organismo, aiutano lo sviluppo del cancro”, spiega ancora il ricercatore italiano. “In due sensi. Da una parte favorendo lo sviluppo del tumore, per esempio nel caso della malattia infiammatoria intestinale che è un terreno favorevole per l’insorgenza del cancro del colon-retto. Dall’altra parte, indipendentemente dalla sua origine, il tumore per sopravvivere crea un ambiente infiammatorio, come nel caso del carcinoma della mammella”.

Interferiscono con il meccanismo infiammatorio anche i vaccini preventivi, arma innovativa che sta facendo la sua comparsa nel panorama della lotta al cancro. Già oggi quello contro l’epatite B riesce a prevenire buona parte dei cancri del fegato. Ma il caso forse più emblematico è quello del vaccino contro il Papilloma virus, che presto verrà introdotto nella pratica clinica: da una parte si sa che il virus causa il tumore della cervice uterina perché scatena una risposta infiammatoria nell’organismo, senza la quale la genesi del tumore non sarebbe possibile; dall’altra è proprio la presenza di una risposta infiammatoria adeguata che permette al vaccino di funzionare. “Ecco perché”; conclude Mantovani, “lo studio del rapporto fra infiammazione e cancro è fondamentale per lo sviluppo di vaccini”.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here