Voglio cominciare così, partendo da me. Una buona abitudine appresa dalla pratica femminista, repressa dalla pratica giornalistica, ma che in questo contesto mi concedo perché assume un significato che va oltre il benessere che può produrre in me. Chi legge si chiederà infatti da quale pulpito giungano le mie riflessioni. Da dove nasca questo articolo, essendo io una giornalista che si occupa di scienza ma non di religione. E allora dico che le considerazioni che seguono derivano non solo dal fatto che all’università e dopo mi sono occupata di filosofia della scienza, ma soprattutto dal fatto che pratico da dieci anni il Buddismo e lo considero un elemento fondamentale della mia esistenza. Dunque mi trovo in una posizione che mi rende particolarmente sensibile al tema del rapporto tra fede e scienza, essendo entrambi i termini a me non solo familiari ma direi costitutivi di ogni mia giornata.
Eppure religione e scienza suonano facilmente come i poli di un’antinomia, se per fede religiosa si intende dare per vero qualcosa senza averlo in qualche misura sperimentato o derivato razionalmente attraverso un ragionamento, e per scienza la spiegazione razionale di porzioni del reale che implica riproducibilità, predittività, ecc. Perché allora quando si parla di Buddismo tale contrapposizione non si produce? Innanzitutto perché in questa religione non c’è trascendenza al di là di quello che ogni individuo può sperimentare. Non c’è sistema teorico di spiegazione del mondo da accettare come una verità rivelata. Non c’è volontà o destino al di fuori dell’essere umano. Inoltre, nessun fondamento teorico che sta alla base della pratica e della filosofia buddista contraddice – o pretende di inglobare – la razionalità del metodo scientifico, né i suoi metodi di indagine o i suoi criteri di conoscenza.
Esiste un principio che ha condizionato fin dall’inizio la diffusione del Buddismo dall’India alla Cina al Giappone e poi all’Occidente, (in giapponese zuiho bini, letteralmente: regole religiose in accordo con le tradizioni) che ha portato questa religione ad adattarsi alla società in cui viene accolta, abbandonando gli aspetti formali tipici della cultura del paese di provenienza. Questo principio non solo ha prodotto risultati importanti in alcuni ambiti della scienza e della filosofia europea (1), ma indica una generale predisposizione della filosofia buddista a un pensiero di tipo non oppositivo, benché profondamente razionale. Anche questo può essere uno dei motivi per cui Buddismo e razionalità scientifica convivono senza sovrapporsi e senza dover reciprocamente dimostrare la propria superiorità – o l’incompiutezza dell’altro.
Ma c’è anche un altro aspetto che spiega questa non contrapposizione: il fatto che religione e scienza si occupano di oggetti diversi, con strumenti diversi ma non incompatibili. Forse questo vale – o dovrebbe valere? – per tutte le religioni. Sicuramente vale per il Buddismo. Da ciò deriva che la religione buddista non deve “dimostrare” di non contraddire la scienza – benché ci siano anzi molti esempi di convergenza su principi che il Buddismo ha esposto molti secoli fa da parte delle moderne teorie della fisica e della biologia (2).
A che serve una religione?
Per molti credenti questa domanda può suonare blasfema: la potenza divina esiste a prescindere dalla volontà o capacità umana di mettervisi in contatto. E dunque la religione non deve trovare alcuna giustificazione esterna a se stessa. Questo è vero per le religioni cosiddette rivelate, come il Cristianesimo, l’Ebraismo, l’Islam. Per il Buddismo la cosa è diversa. Perché nel Buddismo non c’è un dio da cui proviene la verità e al quale bisogna rendere conto, ma solo l’indicazione di una via interiore da seguire per ottenere una condizione vitale di saggezza e illuminazione, esattamente come quella del Budda. Del resto, nessuno nasconde il primario carattere etico-esistenziale di questa religione, nata con la precisa funzione di liberare dalla sofferenza gli esseri umani. Un obiettivo espresso con grande chiarezza dal Budda stesso: “Questo è il mio pensiero costante:/ come posso far sì che tutti gli esseri viventi/ accedano alla via suprema/ e acquisiscano rapidamente il corpo di Budda?” (3)
Nonostante che la tradizione buddista comprenda molte scuole, sostanzialmente suddivise in due filoni principali (Theravada, la tradizione monastica, più antica, e Mahayana, la scuola laica) (4), il cuore dell’insegnamento è unico: ottenere una condizione vitale così alta da godere di ogni aspetto della vita, compresa la morte. E permettere a tutte le persone di raggiungere questa stessa condizione. Il che si traduce in un impegno attivo per costruire una società pacifica, di uomini e donne autenticamente realizzate. Ma questa “vocazione” terapeutica ed etica del Buddismo non esclude, ma anzi si basa su, l’esistenza di profondi principi teorici, che sono totalmente compatibili con la visione scientifica del mondo. Tenterò di descriverli brevemente.
La catena della causalità
La maggior parte degli studiosi ritiene che lo stadio finale dell’illuminazione del Budda Shakyamuni (ovvero “il saggio degli Shakya” come venne chiamato il principe Gautama Siddharta dopo l’illuminazione) vissuto 2500 anni fa in India, culmini con la comprensione della Legge di causalità, cioè la fondamentale interdipendenza di tutti i fenomeni. Questo concetto, anche definito dell’ “origine dipendente”, rappresenta per il Buddismo la visione più profonda dell’esistenza: non esistono esseri o eventi del tutto separati tra loro, ma tutti gli esseri e gli eventi sono reciprocamente collegati da una catena di causa ed effetto. Tutti i fenomeni e tutti gli esseri nell’universo accadono o esistono come risultato di cause. E tutto nell’universo è soggetto a questa legge, per cui nulla può esistere in modo indipendente, né nascere per virtù propria o per una volontà superiore.
C’è un’immagine nella tradizione buddista (la rete di Indra) che rappresenta il reale come una rete e ciascun fenomeno come un gioiello incastonato nel nodo all’incrocio della corde: ogni pietra preziosa si riflette nelle sfaccettature di quelle incastonate negli altri nodi, riflettendo allo stesso tempo la luce dei gioielli vicini. A significare che nessun fenomeno ha senso ed è veramente compiuto indipendentemente dagli altri. Questa nel Buddismo è la verità più profonda: non c’è creazione né distruzione, ma una catena di cause ed effetti senza inizio né fine. Niente permane e tutto cambia, in una trasformazione che però non è né fortuita né etero-guidata, ma mossa da una logica interna “naturale”, comprensibile, razionale.
Questa legge spiega inoltre il principio del karma (letteralmente “azione compiuta”, e dunque la somma degli effetti di tutte le cause avvenute in passato), ovvero della responsabilità individuale – che esclude il fatalismo o l’intervento del destino o di una volontà superiore – nei confronti della propri vita. Dando fondamento teorico anche alla possibilità di trasformare in meglio – o in peggio – attraverso azioni mirate, la propria e l’altrui esistenza.
A ben guardare, la legge di causa ed effetto fornisce anche una spiegazione riguardo a cosa si intende nel Buddismo per “fede”. La fede, che non vuol dire accettare senza comprendere ma che anzi nasce dall’impulso di conoscere, di ottenere una visione profonda di sé e del mondo che non sia soltanto il risultato del proprio ragionamento qui e ora, rappresenta la causa che ha come effetto la dimostrazione pratica, nella propria esistenza personale, dei principi buddisti. Fede perché serve un salto logico, una capriola dove non si tocca terra ad ogni passo, per credere di avere la capacità di guardare tanto ampiamente da superare i limiti della propria mente. La quale però, una volta colto questo qualcosa di più, riprende a ragionare e a spiegare razionalmente tutto quanto. E’ una fede che si trasforma in saggezza.
Due ma non due
Ma il principio teorico più potente sono le cosiddette “dieci unicità ”, tra cui quella di corpo e mente, soggetto e oggetto, interno e esterno, puro e impuro, vita e ambiente, se stessi e gli altri. E soprattutto quella di “realtà fondamentale e tutti i fenomeni”. Quest’ultimo concetto, evitando le difficoltà tradizionali della nostra filosofia nella definizione di realtà (è vero e reale solo e tutto ciò che appare oppure l’essenza, l’idea, la forma che sta dietro le apparenze?) e di conoscenza del mondo (come l’induttivismo ingenuo dove la scienza è una struttura costruita suoi fatti o lo strumentalismo dove le teorie sono solo strumenti per collegare fatti osservabili), postula che non esiste nessuna verità “più vera” dietro ogni fenomeno contingente, e che allo stesso tempo ogni fenomeno non è solo quello che appare. Risolvendo l’antinomia tra trascendenza e immanenza attraverso una terza dimensione che le comprende entrambe ma che non si trova in un luogo diverso.
Secondo T’ien-t’ai (uno dei maggiori studiosi di Buddismo vissuto in Cina tra il 500 e il 600 d.C.) il rapporto tra la realtà fondamentale e tutti i fenomeni è spiegato dal principio di ichinen sanzen. Letteralmente ichinen sanzen significa “tremila condizioni nell’unica mente”. T’ien-t’ai scrive: “Non si può dire che ‘una mente’ preceda tutti i fenomeni e nemmeno che tutti i fenomeni precedano ‘una mente’. Nessuno dei due può precedere l’altro. Quello che si può dire è che la mente è tutti i fenomeni e che tutti i fenomeni sono la mente. Tutto ciò è estremamente oscuro, sottile e profondo. Non c’è conoscenza che possa afferrarlo né parole che possano esprimerlo. Perciò questo rapporto è chiamato regione dell’insondabile”(5). Regione dell’insondabile: già Shakyamuni, nel Sutra del Loto, (6) dice a Shariputra, il suo discepolo più intelligente, studioso e dotto: “ora basta, Shariputra, altro non dirò, perché la Legge a cui si è risvegliato il Budda è la più rara e la più difficile da comprendere. La vera entità di tutti i fenomeni può essere compresa e condivisa solo tra Budda”. Come dire: non c’è tanto da studiare o su cui ragionare. E’ una conoscenza immediata, come un’intuizione, da cui poi si può derivare razionalmente la spiegazione di tutto il resto. Potremo avvicinarla all’Eureka, a quella che Karl Popper chiama “intuizione creativa” seguendo Bergson, e che in psicoanalisi assomiglia al contenuto inconscio a cui accedere scavalcando i ragionamenti con le libere associazioni o i sogni. In ogni caso è una dimensione “mistica”, ed è ciò che fa del Buddismo una religione e non una semplice filosofia.
Ma se non c’è separazione tra realtà fondamentale e tutti i fenomeni, vuole anche dire che non c’è separazione fra assoluto e relativo, fra assoluto e me. Proprio questo passaggio, è importante sottolineare, viene riportato nelle scritture buddiste come la base teorica della possibilità di conseguire la via del Budda da parte di tutti gli esseri viventi. Una base teorica che rende questa religione una religione senza trascendenza e senza dio. Una religione per cosi dire “sperimentale”.
Ultimo atto
Sarebbe un errore volersi preparare a un esame cercando di ottenere l’illuminazione invece che studiando sui libri, o utilizzare solo la buddità per curare un mal di denti o un tumore. Per fortuna la scienza (medica, fisica, biologica ecc.) ha equipaggiato la nostra epoca di strumenti di grande potere, scaturiti da una conoscenza acuta e puntualissima altrettanto potente. Una conoscenza che ci mette a riparo da irrazionalismi e mistificazioni, e che dunque oltre alla tecnologia, oltre ad ospedali e aeroplani ci ha rifornito di un apparato logico condiviso che spiega dimostra calcola esclude prevede. Un’intelligenza del mondo.
Il Buddismo non si basa su verità rivelate, su principi indimostrabili da cui discendono norme a cui bisogna adeguarsi. Le sue leggi sono piuttosto principi esplicativi, che però possono (e devono) essere “sperimentati” individualmente. Su questi principi si basa infatti anche una pratica che è insieme etica e politica, perché si tratta di agire nel mondo di tutti i giorni. Infine attribuisce un posto di primo piano al pensiero relazionale: un approccio che, oltre a risvegliare la responsabilità individuale e collettiva, va d’accordo con la scienza contemporanea, con la critica della scienza, e anche con il pensiero “femminista” della differenza di genere. Cosa potrei volere di più da una religione?
NOTE
1) A. Schopenhauer, F. Nietzsche, M. Heidegger ne sono stati influenzati, così come la psicoanalisi junghiana o la psicologia della Gestalt.
2) Uno dei testi più noti dove si tenta di dimostrare la vicinanza tra la filosofia orientale e le concezioni più recenti della fisica è il Tao della fisica, di Fritjof Capra, Adelphi 1982.
Tra le convergenze più notevoli, a mio avviso, c’è quella delle recenti teorie di coevoluzione tra organismi e ambienti, sorta in seno alla biologia evoluzionistica e all’ecologia. Del resto, uno dei principi teorici del buddismo (una delle dieci “unicità” tra categorie apparentemente separate o opposte) è l’unicità tra la vita e il suo ambiente: senza vita non c’è ambiente, ma la vita è sostenuta dall’ambiente, postula il Buddismo. Un concetto del resto già formulato negli anni ‘20 dai teorici della teoria dei sistemi, che mette in rilievo le influenze reciproche tra i fenomeni.
3) Il Sutra del Loto, Esperia edizioni, Milano 1997, pag. 305
4) Per orientarsi nella storia e le idee principali del buddismo un ottimo compendio è Buddismo, Atlanti universali Giunti, Giunti, Firenze 1996
5) Maka Shikan (Grande contemplazione) l’opera più importante di T’ien-t’ai
6) Il Sutra del Loto è uno degli ultimo insegnamenti (sutra) predicati da Shakyamuni e trascritti dai suoi seguaci nei decenni successivi alla sua morte, dove si dichiara per la prima volta che tutti gli esseri viventi – comprese le donne – possiedono la natura di Budda, e che non c’è differenza nella sostanza tra un Budda e un comune mortale.