L’alto commissariato per i rifugiati si prepara a fronteggiare in Iraq un’emergenza di cui è difficile prevedere la portata, anche facendo i dovuti paragoni con quanto avvenne durante la guerra del golfo. Nel 1991 infatti la gente che fuggiva dalle bombe non aveva ancora conosciuto gli stenti che derivano da sette anni di embargo. Non aveva ancora provato la fame, le malattie e l’impossibilità di procurarsi anche il minimo necessario. Oggi invece la popolazione dell’Iraq è allo stremo. Lo scorso ottobre una commissione congiunta della Fao e del suo “braccio operativo”, il Programma alimentare mondiale (Pam), dopo essere tornata dall’Iraq aveva lanciato un grido di allarme. Nonostante l’accordo “cibo in cambio di petrolio” stipulato con l’Onu (che permetteva a Saddam Hussein di vendere piccole quantità di petrolio per comprare beni di prima necessità) la situazione nel paese continuava ad essere disastrosa.
Nel rapporto diffuso allora il Pam, che cerca di garantire la sopravvivenza a circa 900 mila persone particolarmente bisognose, deplorava la scarsa generosità dimostrata dalla comunità internazionale nei confronti del paese del golfo. L’organizzazione manifestava anche il timore che l’esistenza dell’accordo servisse da alibi ai paesi donatori per stringere ulteriormente i cordoni della borsa.
Eppure prima del 1990 in Iraq si registrava una delle più alte disponibilità di cibo pro-capite della regione. La prosperità economica del paese permetteva di importare dall’estero i due terzi del cibo necessario e la presenza di una buona industria agricola garantiva il restante terzo. Oggi i macchinari sono fatiscenti e il blocco del commercio rende impossibile procurarsi insetticidi e fertilizzanti. Secondo il rapporto della Fao il raccolto di cereali atteso per quest’anno potrebbe essere il più basso dal 1991. Nonostante questa situazione, data la mancanza di cibo importato, è proprio sui prodotti dell’agricoltura locale che si concentrano sempre di più le speranze di sopravvivenza dell’intera popolazione.
Oggi la malnutrizione è diffusa in tutto il paese. In particolare i medici lamentano che la dieta della maggior parte degli iracheni, soprattutto cereali e pochi vegetali freschi e carne, è carente di proteine e totalmente priva di micronutrienti fondamentali. Fra l’altro manca del tutto l’apporto di vitamine A e C, mentre quelli di vitamina B6, calcio e zinco sono circa il 40 per cento del necessario. A soffrire più degli altri sono bambini e adolescenti che sempre più spesso manifestano debolezza cronica. La fame comincia a farsi sentire molto presto nella loro vita. Anche le madri sono denutrite e pochissime riescono ad allattare al seno.
Dal punto di vista sanitario la situazione non è migliore. Gli impianti idrici sono deteriorati e procurarsi acqua pulita da bere è sempre più difficile. L’embargo ha impedito anche agli ospedali di ricevere le medicine necessarie e gli strumenti medici sono pochi, antiquati e malamente funzionanti. Chi ha parenti all’estero può uscire dal paese per andarli a trovare e torna con le valige colme solo di medicinali, a cominciare dall’aspirina. Anche così, negli ultimi sette anni, si è cercato di sopravvivere in Iraq.