La battaglia delle sementi

Favorire lo sviluppo di colture alimentari in grado di adattarsi alle sfide dei cambiamenti climatici, della desertificazione, delle malattie, e soddisfare la richiesta di cibo di una popolazione che nel 2050 raggiungerà i nove miliardi. Serve a questo il nuovo sistema multilaterale per la condivisione equa tra paesi previsto dal “Trattato internazionale sulle risorse fitogenetiche per l’alimentazione e l’agricoltura”. Un sistema che comprende 64 colture, tra cui quasi tutte le specie di frumento e mais, molte piante foraggere e addirittura la fragola, che potranno essere scambiate e conservate nelle banche genetiche e utilizzate dagli agricoltori dei paesi del sud del mondo. Proprio il ruolo di questi ultimi, che l’ultimo rapporto Fao indica come gli unici in grado di salvare il pianeta dall’enorme sfruttamento cui è sottoposto, è stato oggetto di polemiche nel corso della seconda sessione dell’organo di governo del Trattato, svoltasi a Roma dal 29 ottobre al 2 novembre scorsi. Oggetto del contendere, appunto, la possibilità che le sementi possano essere usate e conservate, oltre che ex situ, anche nelle aziende agricole.

Entrato in vigore nel 2004 e ratificato da 116 paesi, il Trattato ha lo scopo di rendere disponibili la diversità genetica e le informazioni relative alle colture conservate nelle banche delle sementi nazionali e internazionale ai paesi (e quindi ai loro agricoltori, selezionatori e scienziati) che lo hanno sottoscritto. “L’obiettivo è favorire uno scambio controllato e aperto, senza bisogno di negoziazione bilaterale come avviene con la convenzione di Rio sulla biodiversità, con ricadute positive per l’innovazione e la ricerca”, spiega Riccardo Bocci, che ha fatto parte della delegazione italiana per conto dell’Istituto Agronomico per l’Oltremare (Iao) di Firenze. L’utilizzo di questo sistema negli ultimi sette mesi ha portato a un maggior scambio di sementi con più di 90 mila trasferimenti effettuati. A tutto guadagno della conservazione della diversità e della sicurezza alimentare. Secondo le stime Fao, infatti, nel secolo passato sono andati perduti circa i tre quarti della biodiversità genetica presente nelle colture agricole. Oggi, solo 150 colture alimentano la maggior parte della popolazione nel mondo e appena 12 forniscono l’80 per cento dell’energia alimentare di origine vegetale, con riso, grano, mais e patata che da soli ne forniscono il 60 per cento.

Il sistema ha delle ricadute anche commerciali: se con la semente scambiata si ottiene una nuova varietà vegetale, vengono riconosciute delle royalties a un fondo ad hoc gestito dal Trattato che deve promuovere progetti di valorizzazione e tutela della biodiversità agricola nei paesi che hanno messo a disposizione la semente e tra le loro comunità rurali. Non solo. Vengono individuati una serie di benefici da ripartire su base multilaterale, come lo scambio di informazioni, l’accesso e il trasferimento di tecnologie, e non ultima la formazione di competenze a livello locale.

Fin qui tutto bene. Ma il Trattato contiene due altri importanti elementi, sui quali durante la riunione a Roma la discussione è stata molto serrata. Si tratta degli articoli 6 e 9, che riguardano l’uso sostenibile delle risorse genetiche e i diritti degli agricoltori. In base al primo, le parti contraenti adottano e attuano politiche e disposizioni giuridiche volte a promuovere l’uso sostenibile delle risorse fitogenetiche per l’alimentazione e l’agricoltura, che comprendono, per esempio, il mantenimento di sistemi agricoli diversificati, l’uso di principi ecologici di mantenimento della fertilità dei suoli e di lotta contro le malattie, e la ricerca partecipativa tra agricoltori e ricercatori. Con l’articolo 9, invece, le parti riconoscono l’enorme contributo fornito dagli agricoltori di ogni parte del mondo per la conservazione e lo sviluppo delle risorse fitogenetiche, e individuano le strade per proteggere e promuovere i loro diritti, facendoli partecipare equamente alla ripartizione dei vantaggi derivanti dall’utilizzazione delle risorse o all’adozione di decisioni a livello nazionale e permettendo loro di continuare a sviluppare nei campi queste sementi.

Proprio su questi punti si è acceso il dibattito. “In generale il sistema piace ai paesi più industrializzati, alle università e ai centri di ricerca perché consente uno scambio facilitato”, continua Bocci. “Ma, nello specifico, l’art. 6 e 9 limitano i finanziamenti di questi paesi. Essi apprezzano l’opportunità, offerta dal sistema, di lavorare con i materiali conservati nelle banche genetiche, ma non vedono di buon occhio le tutele che questi articoli garantiscono agli agricoltori e alla conservazione ‘on farm’”. Alla fine è stato fissato un budget di 4 milioni e mezzo di euro per i prossimi due anni di lavoro del segretariato del Trattato, accordo raggiunto anche grazie all’Italia e alla Spagna che durante la seduta plenaria hanno confermato i loro impegni economici verso il Trattato, invitando gli altri paesi industrializzati a fare lo stesso. Cifra ben diversa, invece, quella messa a disposizione dagli stessi governi per la conservazione ex situ nelle banche del gene, circa 130 milioni di dollari.

Malgrado tutte le difficoltà, anche l’Unione Europea alla fine ha appoggiato una risoluzione sugli articoli 6 e 9, per la quale alla prossima riunione dell’organo di governo, in programma in Tunisia nel 2009, i paesi dovranno presentare un rapporto su cosa stanno facendo per favorire l’uso sostenibile delle sementi e il coinvolgimento degli agricoltori nel miglioramento genetico e nella ricerca agricola, in modo da avere esperienze concrete su cui agire. Ma sul Trattato incombe anche il rischio brevettabilità. Se da un lato il sistema multilaterale di scambio prevede una serie di benefici, è anche possibile per un ricercatore produrre una nuova varietà a partire da una semente e brevettarla. “Quel prodotto nuovo, quindi, andrebbe a finire sotto il sistema di tutela della proprietà intellettuale regolato dall’accordo Trips dell’Organizzazione mondiale del commercio”, conclude Bocci. “Ciò costituisce un vantaggio per le industrie sementiere dei paesi industrializzati, ma di certo non per gli agricoltori che ancora conservano e scambiano le sementi”.

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