La costruzione del numero

Di fronte alla questione dell’origine del numero sorgono immediatamente diverse difficoltà. Il numero, innanzitutto, non si riduce facilmente a un’unica idea, dal momento che ne esistono molte specie: interi, razionali, irrazionali, complessi, numeri non archimedei, numeri transfiniti, numeri non standard e altre ancora, ciascuna caratterizzata da un suo statuto, una sua complessa motivazione scientifica e una sua origine storica. Anche riconducendosi ad un unico concetto elementare di numero intero è comunque necessario fare i conti con ipotesi complesse e mutevoli, come quella formulata dai matematici di fine ‘800 della possibilità di aritmetizzare l’analisi. Lo stesso termine “origine”, inoltre, può essere inteso in diversi sensi, come oggetto di una ricostruzione storico-positiva, ma anche di un interesse filosofico-teoretico che si propone obiettivi affatto diversi. Basta ricordare, tra i filosofi che se ne sono occupati, Immanuel Kant, Edmund Husserl e, in tempi più recenti, Jacques Derrida, a cui si deve una penetrante rilettura delle riflessioni di Husserl sull’origine della geometria.

Uno o più Talete?

Risale a Kant l’ipotesi che la matematica sia nata in Grecia grazie alla scoperta rivoluzionaria di un unico inventore (“si chiamasse Talete o come si voglia”, si legge nella prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura), che avrebbe trovato un modo di giungere alla verità di certi teoremi per via di costruzioni rigorose fondate su un ragionamento a priori. Questa scoperta sarebbe stata preceduta da lunghi e laboriosi “tentativi incerti”, una sorta di preludio empirico a quella che sarebbe stata la matematica propriamente detta, una scienza fondata sul concetto di dimostrazione e caratterizzata da una sicurezza e da una necessità provenienti dalle leggi immutabili del nostro pensiero.

Husserl sollevò invece la questione del rapporto tra l’apriori matematico di Kant e la storia, ovvero il problema dell’esistenza di una struttura aprioristica della storicità matematica, cercando di scorgere nelle evidenze originarie del pensiero geometrico il senso globale di uno sviluppo che avrebbe conosciuto non una, ma molte origini, pur conservando una sua fondamentale invarianza e unità tematica. Forse fu proprio l’intento di salvare questa unità, nella sterminata variabilità dei risultati e delle prospettive della ricerca matematica, a suggerire a Derrida una dichiarazione molto impegnativa, certamente utile alla tesi dell’esistenza di un “apriori universale della storia”, ma che tuttora suscita molti interrogativi. Secondo Derrida infatti qualunque sia la nostra ignoranza sulla storia reale, “noi sappiamo a priori che ogni presente culturale – e quindi ogni presente scientifico – implica nella sua totalità la totalità del passato”.(1) Questo implicherebbe che soprattutto nelle trattazioni sistematiche e rigorose del sapere matematico di certe epoche ancora più che nei frammenti parziali di conoscenza che si accumulano nella storia potremmo sperare di riconoscere il senso delle rivelazioni originarie, oltre che di tutte le verità precedentemente scoperte.

Ma la realtà non sembra suffragare appieno questa speranza, e anzi si assiste talvolta a una vera e propria lotta per l’affermazione di determinate teorie o di determinati indirizzi a scapito di altri e all’occultamento di importanti orientamenti scientifici e dei motivi che ne avevano promosso l’origine. A questo proposito può essere utile confrontare la precedente dichiarazione di Derrida con una importante osservazione di Ernst Mach, per cui “delle opere della scienza antica sappiamo assai poco. Non ci è stata tramandata la minima notizia sui suoi risultati più importanti. Ma la forma dell’esposizione, come mostra il drastico esempio di Euclide, è spesso costruita apposta per nascondere le vie seguite in fase di ricerca. Purtroppo l’esempio antico è stato imitato sovente in epoca moderna, nell’interesse di un malinteso rigore ma contro l’interesse della scienza. Senonché, un’idea è motivata nel modo più compiuto e rigoroso quando tutti i motivi e le strade che vi hanno condotto e l’hanno confermata sono esposti con chiarezza. La connessione logica con idee più antiche, consuete e incontestate non è che una parte, appunto, di questa motivazione. Un’idea di cui sono esposte con chiarezza e completezza le origini non va mai perduta, fino a che valgono i motivi che ne hanno determinato le origini: e d’altro canto può essere abbandonata non appena se ne riconoscono caduchi i motivi.”(2).

Il rapporto tra grandezze secondo Euclide…

Viene subito in mente, a suffragare l’osservazione di Mach, un punto cruciale della matematica antica, e della matematica greca in particolare: la definizione dell’idea di rapporto (in greco: logos). La scoperta della possibilità di mettere in relazione reciproca due numeri o due grandezze attraverso un rapporto è stata in effetti uno degli atti più rivoluzionari e decisivi per la storia della civiltà, perché da questa sono dipesi non solo gli ulteriori sviluppi della matematica e del concetto di numero in particolare, ma il modo più generale di concepire la possibilità di legare tra loro con una misura (conformemente al significato del greco legein o del latino colligere) le grandezze astratte della matematica o le grandezze osservabili in natura: figure geometriche, numeri, cicli astronomici, intervalli musicali, superfici di terreno, spazi riservati ai templi o alle scene rituali.

Quanto alla definizione del concetto di rapporto sono tuttavia sorte diverse questioni riconducibili principalmente all’incertezza provocata dall’esistenza delle grandezze incommensurabili, come il lato e la diagonale di un quadrato, per le quali un rapporto non poteva esprimersi come rapporto tra due numeri interi. Per superare questa incertezza, Euclide non definisce esplicitamente il rapporto (se non in termini intenzionalmente vaghi), ma ne dà una descrizione indiretta (la teoria di Eudosso-Euclide del V libro degli Elementi), che è la base di una ingegnosa teoria del continuo ripresa in termini molto simili da Richard Dedekind con il concetto di numero reale come “sezione” (1887). Più precisamente, Euclide non dice che cosa è; un rapporto, ma si limita a specificare le condizioni per cui due rapporti sono uguali. Questa definizione poggia quindi sul concetto di proporzione, ovvero sul concetto di uguaglianza di due rapporti: quattro grandezze a, b, c, d sono proporzionali nel caso in cui a:b > n:m se e solo se c:d > n:m; a:b = n:m se e solo se c:d = n:m e a:b n:m se e solo se c:d n:m, per ogni coppia di numeri interi n e m.

Due brevi osservazioni nel caso delle grandezze incommensurabili possono aiutare a capire meglio questa definizione: anche se i rapporti numerici n:m potrebbero essere interpretati come rapporti numerici approssimanti, sia per difetto che per eccesso, la definizione non offre nessuna informazione su come possano essere effettivamente calcolati. Un rapporto fra grandezze incommensurabili risulta inoltre individuato dalla totalità infinita dei rapporti numerici che lo approssimano per difetto e per eccesso. Non potendo essere uguale a un rapporto fra numeri interi per definizione, il rapporto tra grandezze incommensurabili rimane un’entità sospesa tra due successioni illimitate di rapporti numerici n/m. In linea di principio la definizione lo individua univocamente, ma non si sa precisamente che cosa esso sia e come si possa dare una effettiva valutazione dei numeri n e m.

Può in effetti sembrare che la matematica abbia progressivamente rinunciato a dire che cosa sono gli enti di cui si occupa, e che la definizione di Eudosso-Euclide non sia che un primo passo importante in questa direzione. Hermann Weyl osservava con qualche ragione che la scienza rimane del tutto indifferente all’essenza dei suoi oggetti, e che un dominio di investigazione, quale può essere un campo di numeri, è determinato solo a meno di un isomorfismo. Ma questo non esclude che proprio alla definizione euclidea di rapporto possa applicarsi a proposito l’osservazione di Mach: è verosimile che la teoria del V libro degli Elementi oltre a rappresentare un insostituibile contributo all’idea matematica di continuo, copra ed occulti una concezione precedente, pre-euclidea, del logos matematico, forse più vicina al senso “originario” che poteva avere il “misurare assieme” due grandezze con un rapporto.

…e per Platone e Aristotele

A questo punto risultano di grande aiuto i tentativi di ricostruzione della matematica greca pre-euclidea, dovuti in particolare a Oscar Becker (1933) e, più recentemente, a David Fowler (1979). La tesi è che la teoria delle proporzioni di Eudosso-Euclide sia stata preceduta da una teoria algoritmica del rapporto, teoria di cui parlerebbero implicitamente diversi passi dei Dialoghi di Platone, e a cui alluderebbe un’importante dichiarazione di Aristotele e una successiva precisazione di Alessandro di Aphrodisia (II secolo d. C.). In effetti Aristotele, in modo più esplicito di Euclide, dice che cosa è un rapporto. Per Aristotele (Topici, 158 b 29) un rapporto è precisamente un’antanairesis: “Sembrerebbe che anche nella matematica alcune proposizioni siano difficili da dimostrare, per la mancanza di una definizione, per esempio quella che afferma che la retta parallela al lato di un parallelogramma, che spezza in due la figura, divide in modo simile la base e la superficie. Ma una volta enunciata la definizione, quanto detto diventa subito chiaro. Poiché le superfici e le basi hanno la stessa antanairesis; e questa è appunto la definizione di rapporto [logos]”.

Il significato del termine greco antanairesis (che Alessandro di Aphrodisia considera sinonimo di anthyphairesis , attribuendolo alla scienza degli “antichi”) si spiega soprattutto in base al senso di anti e ana: vi si allude a una specie di “antagonismo”, a un confronto reciproco di due grandezze, e alla risoluzione di questo confronto per via di un processo che comporta la ripetizione (ana) di una stessa operazione elementare di sottrazione applicata a diverse grandezze che ubbidiscono a una formula di ricorrenza. Il risultato è allora quello che si chiama di solito “algoritmo euclideo” per il calcolo della massima misura comune di due grandezze, o del massimo comun divisore tra due interi.

Il processo può servire a un duplice scopo: dimostrare, quando è il caso, che due grandezze sono incommensurabili, e calcolare delle approssimazioni numeriche del loro rapporto. Se ad esempio a e b sono due segmenti di retta, il secondo più piccolo del primo, b può essere sottratto da un numero n0 di volte, lasciando un resto a1 al più piccolo di b. Se questo resto è nullo allora l’unità di misura comune ad a e b è semplicemente b; se non è nullo si può procedere con b e al in modo analogo a come si è fatto con a e b: al è contenuto in b un numero n1 di volte lasciando un resto a2 più piccolo di al, eventualmente nullo. Se il nuovo resto è nullo, allora al è l’unità di misura comune cercata; se non è nullo il procedimento può quindi continuare con i segmenti al e a2, procurando un nuovo resto a3 più piccolo di a2 (ed eventualmente nullo). Si ottiene quindi, in generale, la formula di ricorrenza ai-1 = niai + ai+l, i = 1, 2, 3, . . ., dove i diversi quozienti ni formano lo “spettro” del rapporto a:b il quale consiste precisamente nel processo, o algoritmo, che li genera passo per passo. L’assenza di un’unità di misura comune, ovvero l’incommensurabilità di a e b, sarebbe allora la conseguenza di una dimostrazione che il procedimento non può aver termine, cioè che ogni resto ai è diverso da zero e che lo spettro è composto da infiniti numeri interi.

Per ironia della storia, questo algoritmo che poteva costituire la base del concetto di rapporto prima di Euclide è noto anche come “algoritmo euclideo”, in quanto Euclide lo cita negli Elementi come criterio per la dimostrazione dell’incommensurabilità di due grandezze. Euclide però non usa mai, dopo averlo menzionato, l’algoritmo che porta il suo nome, neppure nel caso semplice e ovvio del rapporto tra la diagonale e il lato di un quadrato. E soprattutto non lo usa per definire un rapporto, come gli “antichi” avevano fatto, verosimilmente, prima di lui. Dietro questa omissione potrebbe celarsi come si è sempre detto una petitio principi, nel senso che la conclusione circa l’incommensurabilità di due grandezze, in base al comportamento all’infinito di una sequenza di resti consistenti in segmenti sempre più piccoli, poteva richiedere un chiarimento su certi presupposti assiomatici.

Ma, a prescindere dai presupposti (del resto individuabili) su cui potesse fondarsi l’uso dell’antanairesis, resta il completo abbandono, da parte di Euclide, di una definizione costruttiva e algoritmica di rapporto; e non è escluso che questa rinuncia dipendesse, in ultima istanza, dall’orientamento essenzialmente geometrico della matematica greca, propiziato in gran parte dalla crisi della scoperta dell’incommensurabilità. Data l’impossibilità di rappresentare sempre con dei numeri un rapporto di grandezze, le principali operazioni matematiche divennero, nella scienza greca, operazioni geometriche, costruzioni formali con sistemi ben definiti di linee e di cerchi. La moltiplicazione, ad esempio, consisteva nella costruzione di un rettangolo (e tale restò in fondo fino a Newton, nonostante il processo di algebrizzazione cominciato già molti secoli prima); e a questa poteva seguire, attraverso una proporzione, la costruzione di un quadrato equivalente. I rapporti tra linee incommensurabili potevano tramutarsi in rapporti tra grandezze commensurabili passando ai quadrati o ai cubi. In altre parole, quello che era esatto era anche geometrico, mentre con i numeri ci si poteva solo “avvicinare” ai rapporti tra grandezze incommensurabili, trovavandone approssimazioni per eccesso o per difetto.

La crisi della geometria

Est enim certum semper subjectum, sub quo operetur Geometra, avrebbe ancora dichiarato Franciois Viète nel XVI secolo. Ma proprio il processo di algebrizzazione di cui lo stesso Viète fu tra i principali promotori, ebbe come conseguenza la ripresa della definizione di rapporto per mezzo dell’antanairesis. Furono i matematici arabi come Omar Khayyam a sostenere che la definizione euclidea di rapporto era sì corretta, ma “non vera”, nel senso che non ne rispecchiava la vera e ultima essenza. La teoria delle proporzioni di Eudosso-Euclide, se riguardata come possibile strumento di defininizione del logos matematico, soffriva in effetti di una sorta di debolezza pratica, in quanto non specificava come costruire algoritmicamente i rapporti numerici n:m. E una debolezza pratica, come ha spesso insegnato – soprattutto in tempi recentissimi – la storia della matematica si muta facilmente in debolezza teorica. A partire dal IX secolo gli arabi svilupparono, come è ben noto, una matematica di tipo algebrico-numerico-algoritmico, e per questo erano più propensi a “riprendere” una teoria del rapporto in termini di antanairesis, che risolveva il concetto di logos matematico in una sequenza, finita o infinita, di puri numeri interi positivi (i numeri ni che formano uno spettro). Così facendo, si potevano meglio superare i vincoli imposti alla scienza greca dalla crisi tra numero e grandezza, crisi che aveva agevolato lo sviluppo di una geometria rigorosa, ma che aveva escluso l’aritmetica dalla matematica del continuo.

La ripresa del concetto di rapporto come antanairesis da parte della matematica araba è uno dei segni che caratterizzano il processo di aritmetizzazione della matematica, proseguito, dopo gli arabi, con gli algebristi italiani del ‘500, con Viète, Cartesio, Newton e altri, fino a culminare nelle grandi ipotesi fondazionali di fine ‘800, per le quali tutta l’analisi era riconducibile al numero intero. Se il rapporto, presso i greci, non era un numero, cominciò a diventarlo proprio con i matematici arabi.

Newton avrebbe più tardi addirittura rovesciato i termini in gioco: la questione non era più se e quando un rapporto poteva considerarsi un numero, ma se si potesse concepire un numero – nel modo più generale – come un rapporto. Nelle “correzioni” al suo trattato di algebra (1673-1683) Newton dichiarava infatti di intendere per “numero” non tanto un aggregato di unità, quanto un rapporto (ratio) tra una qualsiasi quantità e un’altra ad essa omogenea. E questo rapporto poteva essere intero, frazionario o irrazionale (integer, fractus et surdus).

Ciò che la geometria euclidea aveva coperto e occultato era, in effetti, una tradizione aritmetica-computazionale sviluppatasi in epoca precedente che aveva raggiunto la sua massima evidenza nella matematica babilonese, ma era anche presente oltre che in Grecia prima di Euclide nella tradizione scientifica dell’India e della Cina. Questa tradizione, come è stato più volte ipotizzato (ad esempio da Seidenberg e da van der Waerden), potrebbe essersi sviluppata in un’iniziale accordo con la geometria. Negli antichi trattati indiani sulla costruzione degli altari (Sulvasutra), di incerta datazione ma riferentisi a pratiche di misurazione presumibilmente molto antiche, si descrivono problemi geometrici i quali, per essere risolti, richiedono delle tecniche di approssimazione strettamente numeriche (ad esempio, per ottenere una quadratura del cerchio, si calcolava una approssimazione della radice quadrata di 2 con una somma di frazioni). In altri termini, venivano trattati problemi geometrici che potevano essere risolti solo con grande difficoltà nel solo ambito geometrico, e che richiedevano “naturalmente” un’approssimazione di rapporti tra grandezze in termini di numeri. La tradizione numerico-algebrica-algoritmica avrebbe così avuto origine (come ha suggerito Seidenberg) da una prima crisi della geometria, incapace di risolvere al meglio tutti i problemi formulati al suo interno.

D’altra parte, queste prime tecniche numeriche per l’approssimazione di rapporti potrebbero essere state a loro volta concepite, inizialmente, in base a costruzioni geometriche, le quali potevano consistere, in particolare, nell’ingrandimento o nel rimpicciolimento di figure in modo da conservare, tra queste, un rapporto di similitudine. Il numero, l’aritmetica e quella che i greci avrebbero chiamato logistica (non la “logistica” nel senso di Russell e Couturat, ma una scienza computazionale del logos, ovvero del rapporto) sarebbero stati dunque concepiti prevalentemente attraverso immagini spaziali: immagini che evocavano un processo di crescita o di diminuzione in cui rimanesse invariata la forma. Del resto, questa crescita o diminuzione nella similitudine è osservabile nella interpretazione geometrica dell’antanairesis applicata ai casi più semplici e importanti, come il rapporto tra diagonale e lato di un quadrato o di un pentagono regolare.

Una delle tecniche per realizzare questa invarianza della forma, in un processo di crescita o di diminuzione, era basata sulla figura dello gnomone: una figura che, aggiunta a un dato poligono, permetteva di ricavarne un altro più grande e simile al primo. I pitagorici concepivano precisamente in questi termini i numeri – come forme poligonali aumentabili con gnomoni- e la tesi secondo cui i numeri erano principi di tutte le cose poteva essere fondata sulla tecnica gnomonica. Queste immagini, originariamente associate al numero e alle tecniche di approssimazione numerica, ricorrono certo nell’opera di Euclide, ma solo come immagini geometriche, e non come strumenti per visualizzare i procedimenti dell’aritmetica e della logistica. Soltanto con l’algebrizzazione della matematica, dagli arabi a Newton, le stesse immagini divennero formule analitiche, per capire le quali era inizialmente necessario ripensare alle corrispondenti figure della geometria. Queste formule assunsero ben presto un proprio statuto indipendente, foriero di nuove generalizzazioni e astrazioni, ma ancora Newton dichiarava che tutta l’algebra analitica si basava su tre capisaldi di origine geometrica: la possibilità di sommare segmenti lineari, la possibilità di stabilire proporzioni in base alla similitudine di grandezze e la possibilità, infine, di sommare e sottrarre quadrati col teorema di Pitagora. La computatio algebrica si fondava quindi sulla matematizzazione dello spazio, e in particolare sul concetto di invarianza della forma attraverso il concetto di similitudine.

La tradizione numerica-computazionale che precedette lo sviluppo della geometria greca, presente soprattutto in Mesopotamia ma anche in India e in Cina, è stata spesso interpretata come un momento preparatorio, empirico e non rigoroso, di quella che sarebbe poi diventata, nel senso più rigoroso del termine, la scienza matematica (basti ricordare l’osservazione iniziale di Kant, riproposta innumerevoli volte). Ma il carattere di “approssimazione” e di non “esattezza” legato a questa tradizione non significa che si ragionasse in termini poco rigorosi o approssimativi. Il compito era proprio quello di “approssimare” i rapporti, cioè di fornirne valutazioni necessariamente non esatte: e questo poteva essere realizzato in modo non meno rigoroso, sia per le tecniche usate, sia per lo studio critico dei loro presupposti teorici, di una dimostrazione costruttiva di tipo geometrico. In questo senso la computatio numerica non ha dato luogo a una matematica poco rigorosa, bensì a una tradizione parallela a quella geometrica che si è sviluppata in modo intermittente dai babilonesi alla logistica pre-euclidea, da Erone di Alessandria ai matematici arabi, dagli algebristi italiani fino al calcolo numerico del ‘600 e ‘700. E su questa tradizione si sarebbe innestata, con presupposti totalmente rinnovati, la scienza degli algoritmi numerici inaugurata da John von Neumann, Herman Goldstine e Alan Turing verso la metà di questo secolo. Sono proprio le antiche tecniche di approssimazione numerica a rivelare come la nostra mente sia regolarmente ricorsa anche per i ragionamenti astratti e aritmetici a vari sistemi di immagini, sulla cui origine si può solo tentare di avanzare delle ipotesi, ma che abbiamo tuttavia la tentazione di riferire, dietro il suggerimento platonico (oltre che per diversi indizi provenienti da diverse tradizioni), alla scienza astronomica e al compito immane che ne derivava: quello di imitare e riprodurre sulla Terra le corde invisibili che tenevano legati, in conformità alle leggi del numero, gli astri del cielo.

(1) E. Husserl, L’origine de la géometrie, trad. et intr. par J. Derrida, Paris, 1974, p. l 12

(2) E. Mach, Conoscenza ed errore, Torino, 1982, p.219/2

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