La crisi della cultura

L’università è uno di quegli argomenti che periodicamente si affaccia sui giornali. In questi ultimi tempi sono divenuti più frequenti gli interventi che riguardano l’università per molti motivi.
Il primo motivo è la crisi, per molto tempo rimossa e poi esplosa in tutta la sua gravità. Una volta che la crisi è esplosa sui media (ovviamente c’era anche prima ma non interessava parlarne) si stanno cercando delle soluzioni per diminuirne l’effetto. Una delle soluzioni ribadite anche nel recente G20, è che bisogna ridurre i deficit dei paesi industrializzati. Bisogna ridurre le spese dello stato, bisogna tagliare i bilanci, le spese, gli stanziamenti. Uno dei tagli che è stato ritenuto essenziale da chi ha proposto la manovra finanziaria nel nostro paese è stato quello di comprimere i salari dei dipendenti pubblici, e quindi anche dei professori universitari. Bloccare gli aumenti più o meno automatici di stipendio dei prossimi due anni e un taglio del 5% dello stipendio per chi guadagna più di 90.000 euro. Stesso discorso è stato fatto per altre categorie come gli insegnanti e i magistrati. Per questi ultimi, grazie alla loro mobilitazione e influenza, sembra che sia stato stabilito che ci sarà un recupero degli aumenti non corrisposti alla fine del periodo di blocco. Non così per le altre categorie toccate dal blocco.

È scattata quindi la mobilitazione dei docenti universitari, che, come al solito, si esprime in modo molto morbido, in comunicati più o meno incisivi che gli organi accademici inviano al Ministero dell’università e della ricerca, alle commissioni parlamentari. In cui si lamenta l’aspetto punitivo, la mancanza di risorse per la ricerca, la maggiore incisività in termini percentuali dei tagli sui più giovani. I tagli comportano anche una diminuzione percentuale delle pensioni. Inoltre i ricercatori universitari, che da anni svolgono le mansioni di docenti e senza i quali l’università sarebbe costretta a diminuire drasticamente i corsi di laurea, sono in agitazione perchè la nuova legge universitaria di fatto non riconosce la loro attività didattica e chiude a esaurimento la loro carriera. E ce ne sono tanti di bravi e meritevoli. Inoltre il blocco del ricambio impedisce di bandire concorsi e di recuperare almeno in parte i posti che si liberano per il pensionamento dei docenti. Tutti sanno tra gli addetti ai lavori che nei prossimi 5 anni andranno in pensione forse più di un terzo di tutti i professori universitari. E non ci saranno le risorse per rimpiazzarli né per dare sbocchi ai più giovani.

Una situazione drammatica di cui il paese non è di fatto a conoscenza. Perchè si è arrivati a questa situazione? Ci sono ovviamente delle colpe e delle colpe pesanti da parte dei professori universitari e degli amministratori a tutti i livelli.

1) Una delle iniziative più sciagurate è stata quella (chi la propose molto probabilmente non si rese conto di che cosa sarebbe successo) di impedire di fatto la possibilità ai giovani laureati e dottorati di trovare posto all’università per continuare l’attività di ricerca cambiando di sede. È essenziale nel settore universitario che soprattutto i giovani abbiano la possibilità di muoversi in altre realtà e di formarsi culturalmente e scientificamente in ambienti diversi. È una delle caratteristiche essenziali dell’università. Se  a questo si aggiunge che in alcuni settori universitari si ha la tendenza a tramandare a figli e parenti le proprie posizioni accademiche se non le proprie conoscenze, si è creata in questa ultimi anni una situazione molto negativa in cui i pochi che riescono a trovare un posto universitario a qualsiasi livello non si muoveranno più dalla loro sede accademica di formazione. Le università diventano riserve indiane senza scambi culturali tra loro. Mobilità è invece una parola essenziale per la ricerca scientifica.

2) Nel corso degli ultimi anni sono stati creati un numero assurdo di corsi di laurea e  di sedi universitarie. È imperativo tagliare e chiudere i corsi di laurea e le sedi universitarie che si sono rilevate non produttive dal punto di vista culturale e scientifico. E per fare questo bisogna ovviamente valutare, perchè la valutazione è la parola chiave.

3) Valutazione a tutti i livelli. È la pratica che viene invocata da tutti. Sono anni che se ne parla. Devono essere valutati i corsi singoli, i docenti, gli studenti, i dipartimenti, i corsi di laurea, le università, i fondi di ricerca. Non chiedendo di immettere nel sistema di valutazione  due lavori scientifici in 4 anni, che sembra una presa in giro. È pur vero che ci sono scienziati, mi viene in mente Andrew Wiles, il matematico che ha dimostrato dopo 8 anni di lavoro l’ultimo teorema di Fermat e che in quegli anni non aveva pubblicato nulla. Ma in generale non sono moltissimi i casi del genere. Vanno benissimo coloro che vogliono fare soprattutto i docenti, ma non saranno incentivati, vanno benissimo coloro che all’università, soprattutto in quelle grandi, vogliono fare la politica universitaria, ma per poco tempo e non a vita, come unica attività. Chi valuta? I professori universitari, come in qualsiasi sistema che funzioni bene. Magari con aiuti esterni ma senza esagerare. E tutte queste valutazioni vanno lette ed esaminate, e in base a queste vanno prese le decisioni. E chi ha barato verrà smascherato da chi si vede tagliati i fondi in modo ingiusto.

4) I fondi. Certo in Italia i fondi non sono mai stati tanti e saranno sempre meno. Il governo può benissimo scegliere un modello per i prossimi anni in cui l’università pubblica, la formazione, l’istruzione, la cultura abbiano un ruolo marginale. Per un paese che è famoso nel mondo per possedere probabilmente il 50% del patrimonio artistico dell’intera umanità sembra una posizione curiosa, ma è pur sempre una posizione, purché sia resa esplicita. Le università pubbliche disperdono risorse (e non vi è dubbio che succede) quindi tagliamo le loro risorse, sperando che in questo modo, senza valutare nello specifico, il sistema trovi nel tempo un suo  equilibrio. Nel frattempo per formare la classe dirigente (perchè checche se ne dica una classe dirigente per i prossimi 20 anni serve) mandiamo i nostri figli a studiare all’estero, in scuole prestigiose dove si formeranno bene e acquisiranno tante capacità. E chi non ci può andare? Pazienza. La colpa è dell’università che disperde le poche risorse disponibili. E pazienza per i brevetti, le conoscenze tecnico-scientifiche, la cultura.

5) La cultura. Questa è in realtà la questione centrale. Qual è il modello culturale che abbiamo davanti per i prossimi 20 anni? Un’università chiusa in se stessa, con pochi fondi, con pochi docenti, con poche possibilità. Un sistema formativo che è visto come una zavorra che va alleggerita. In cui magari si discuterà se ripristinare gli aumenti agli insegnanti e ai docenti universitari. Come se fosse questo il problema. È il modello culturale il grande assente nel panorama del futuro del nostro paese. E quando si dice cultura si intende: scuola, formazione, università, scuole di eccellenza ma anche teatro, cinema, musica, arte, architettura, patrimonio culturale. Perchè tutto si lega e se si perdono colpi in uno di questi settori, prima o poi tutti gli altri ne risentono e si perderà quella grande capacità creativa del nostro paese che non è basata su idee improvvisate e geniali, ma che deve essere fondata su un duro lavoro di formazione e di insegnamento che permetta ai nuovi talenti di emergere in tutti i settori della cultura.

Non so se sia una buona idea quella di imitare il modello francese, in cui già ai bambini della prima elementare è proposto alla fine dell’anno un test nazionale, e i risultati accumulati anno dopo anno vengono a formare il curriculum dello studente che poi dovrà accedere ai gradi più alti di formazione. Così si porta alle estreme conseguenze il criterio della valutazione, innescando un meccanismo di competizione e di emulazione che ha l’ovvio effetto negativo di poter creare dei disadattati sin dai primi anni di scuola.

Detto questo non ha molto senso che le diverse categorie culturali si mettano a fare scioperi ognuna per conto loro, ognuna per ottenere che la coperta sia tirata da una parte piuttosto che da un’altra. Perchè non fare sentire la voce di tutta la cultura taliana con una voce unica chiedendo che si discuta quale è e sarà nei prossimi venti anni il futuro di questo paese? Si può anche essere convinti che in realtà non vi sia bisogno di una grande formazione culturale, diffusa e di massa, che non ci sia bisogno della diffusione delle conoscenze scientifiche e tecniche, culturali e artistiche, che non sono queste le priorità del paese. Non credo che sia così, ma può darsi di sì. Perché è su questo che si gioca il nostro futuro, i nostri prossimi 20 anni. O meglio delle nuove generazioni.

6) E per i tagli degli aumenti? Non ci sono dubbi che i tagli presentati in questo modo sono visti come ingiusti e dettati non solo da motivi economici. Ma penso si possano tassare tutti quelli che guadagnano più di 90.000 all’anno, anche i professori universitari. Chiedendo con forza però che i fondi raccolti servano non solo a tappare i buchi che qualcuno ha prodotto negli anni precedenti, ma a creare nuovi spazi per i giovani. In particolare l’università è un mondo di giovani. Se non vi è un continuo ricambio generazionale l’università cessa di esistere.
Quindi va benissimo tagliare a chi ha un posto sicuro, a chi guadagna di più, per cercare di far sì che le energie migliori non vadano sprecate a tutti i livelli, dalla formazione di base all’alta cultura, dall’università al teatro al cinema. Alla cultura in una parola. Valutando, entrando nel merito, facendo delle scelte che scontenteranno qualcuno e premieranno altri.

7) Si stanno alzando i tetti dei pensionamenti, perchè la vita si allunga, perchè i fondi non bastano, perchè ai giovani non rimarrà nulla. La formazione di un professore universitario costa molto, è un investimento di lungo periodo. All’università si va nella direzione opposta, si vuole far andare in pensione tutti prima. Si dirà: per fare largo ai giovani. Certo! Ma ci sono professori universitari che a 80 anni posso dare ancora moltissimo all’università e ai giovani, ce ne sono altri che a 50 non svolgono nessun lavoro creativo. Teniamoci i vecchi universitari geniali, senza stipendio ovviamente e senza più cariche accademiche, ma lasciamo loro spazio, a quelli che una volta si chiamavano “maestri”, mentre disincentiviamo quelli che non lavorano più per farli andare via.

In altre parole facciamo a tutti i livelli il mestiere per il quale tanti sono pagati: valutiamo e decidiamo. Nel campo della cultura è un imperativo morale oltre che economico.

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