La lezione americana

Dieci donne in più ogni 100. Sono quelle che sopravvivono per almeno cinque anni dopo la diagnosi di tumore al seno negli Stati Uniti rispetto all’Europa, l’89 per cento contro il 79 per cento. È il risultato di uno studio multicentrico internazionale presentato all’Istituto Tumori di Milano e in via di pubblicazione sul prossimo numero della rivista Cancer (ma già disponibile in rete) (( http://www3.interscience.wiley.com/cgi-bin/fulltext/106592618/HTMLSTART)) che ha confrontato quasi 5.000 donne europee e 13.000 statunitensi. I dati provengono dalla elaborazione di uno studio vastissimo – chiamato “Eurocare-3” – che ha coinvolto decine di ospedali e centri di ricerca in oltre 20 paesi e ha permesso di seguire sei milioni e mezzo di pazienti (colpiti da vari tipi di cancro), in un periodo compreso fra il 1978 e il 1994, con informazioni sulla sopravvivenza fino al 1999. Una delle possibili spiegazioni è che le cure americane siano più efficaci, e migliorino la sopravvivenza. Ma questa interpretazione non è l’unica possibile. La seconda è che i tumori vengano diagnosticati prima negli Stati Uniti che in Europa, portando così a terapie più tempestive. La diagnosi precoce seguita da rimozione del tumore primario potrebbe abbassare la percentuale di pazienti che sviluppano metastasi. Lo confermano anche Milena Sant, epidemiologa, e Franco Berrino, direttore del Dipartimento di Medicina preventiva e predittiva all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, insieme a Natale Cascinelli, direttore scientifico dello stesso Istituto: le donne americane affette da tumore al seno vivono più a lungo perché il tumore viene diagnosticato prima, quando è più circoscritto e ha avuto meno tempo per disseminare cellule maligne che possano formare metastasi, causa di prognosi negativa. Sembrerebbe contribuire alla differenza tra l’Europa e gli Stati Uniti anche il maggior numero e la maggiore accuratezza delle analisi dei linfonodi eseguiti Oltreoceano. Di conseguenza al 40,8 per cento delle donne americane viene diagnosticato un tumore piccolo, con linfonodi negativi, contro il 28,9 per cento delle donne europee. Sia i dati americani sia quelli europei prendono in considerazione situazioni socio economiche diverse e non necessariamente rappresentano fedelmente la totalità delle pazienti. È possibile, che nei casi americani la popolazione benestante sia sovrarappresentata ma quel che importa è che il confronto con gli americani sia di stimolo a garantire alle nostre pazienti la migliore procedura di diagnosi possibile. Il lavoro su Cancer sottolinea la necessità di garantire a tutte le donne tra i 50 e i 70 anni lo screening mammografico e di creare una cultura della prevenzione. Mentre alle donne giovani si consiglia la palpazione del seno eseguita dal ginecologo che potrà insegnare anche l’autoesame. Ma negli Usa va veramente tutto meglio che da noi? Non sembra, l’incidenza dei tumori al seno, ossia il numero delle donne a cui viene diagnosticata tale neoplasia rispetto alla popolazione totale, rimane decisamente più alta in America che in Europa, molto probabilmente a causa di fattori socio-ambientali: primo imputato la dieta. In Europa, l’Italia occupa una posizione nella media, mentre i nuovi membri dell’Est rappresentano il fanalino di coda. Preoccupa l’Inghilterra che mostra delle medie di sopravvivenza dopo diagnosi di tumori di vario genere più bassa della media europea. Va detto che i dati epidemiologici dello studio su Cancer si riferiscono agli anni Novanta; nel frattempo sia lo screening mammografico sia l’analisi accurata dei linfonodi si sono diffuse sempre più anche in Italia, quindi è possibile che la forbice di sopravvivenza con gli Usa sia già meno ampia. Lo studio Eurocare nel suo complesso è comunque incoraggiante: la sopravvivenza a cinque anni per i malati con diagnosi di tumore negli anni Novanta è stata mediamente del 23 per cento in più rispetto agli anni Ottanta. I tumori della mammella (12 per cento), della prostata (25 per cento) e del colon retto (10 per cento) hanno registrato i più importanti miglioramenti della prognosi.

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